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Archive for the ‘cinema e politica’ Category

 

L’interminabile saga cinematografica consacrata alle gesta epiche dell’Uomo del Monte ha inizio con la cosiddetta “Trilogia del potere”, che comprende tre episodi: “De Mita, la genesi”, “De Mita, l’ascesa“ e “De Mita, l’apoteosi”. I primi tre film della lunga serie dedicata all’epopea demitiana, rievocano l’infanzia e le esperienze politiche giovanili del protagonista a partire dalla nascita in quel di Nusco, un paesino arroccato sui monti irpini, fino a ricostruire la rapida ascesa e la scalata del potere politico, prima sul terreno locale e poi su quello nazionale, quando nelle mani di Super Ciriaco si concentrarono la segreteria nazionale della Democrazia Cristiana e la guida del governo.

In seguito, la saga cinematografica si è arricchita di una nuova trilogia, la cosiddetta “Trilogia dell’eroe”, comprendente altri tre episodi significativi. Il primo dei quali, intitolato “De Mita, la caduta”, descrive la fase discendente della parabola demitiana, ripercorrendo lo scandalo dell’Irpiniagate e le vicissitudini politico-giudiziarie di Tangentopoli che hanno sancito il crollo della Prima Repubblica, decretando la fine ingloriosa del regime craxiano e dell’asse governativo C.A.F. (Craxi/Andreotti/Forlani).

Il secondo episodio ha per titolo “De Mita, il riscatto” e racconta la fase successiva della leggendaria carriera di Super Ciriaco, sopravvissuto eroicamente alla bufera di Mani Pulite, ripercorrendo le tappe della ripresa dopo l’avvento della Seconda Repubblica e la “discesa in campo” del sedicente “nuovo che avanza”, il presunto “Unto del Signore”, in arte “Cavaliere Nero”, alias “Satiro nazionale”, al secolo Silvio Berlusconi da Hardcore.

 Il terzo ed ultimo episodio della trilogia in questione si intitola “De Mita, ancora tu?“ e mette in scena le nuove prodezze (ogni riferimento a Prodi è puramente involontario e casuale) del nostro irriducibile eroe, che resiste con tenacia alle avversità del destino.

E’ imminente la proiezione nelle sale cinematografiche dell’ultimo film che chiude (per il momento) la saga mitologica del Signore di Nusco. Il titolo è “De Mita, la vendetta”, scritto, diretto ed interpretato dal mitico Ciriaco in persona. Un film da non perdere.

Il film narra come, dopo l’amara esclusione dalle liste del PD ad opera del finto “buono”, il cinico Veltronix, l’eroe di Nusco decide di abbandonare il partito per aderire alla formazione politica della Rosa Bianca ed infine all’UDC. Da quel momento coverà nell’animo un solo sentimento e un solo scopo: vendicare il torto subito dal perfido nemico. Il quale, con la scusa dell’età, lo ha malamente estromesso dalle candidature spingendolo ad uscire dal partito, dopo che lo stesso Ciriaco aveva concorso alla formazione del PD e al trionfo di Veltronix alle primarie del Partito Demo(n)cratico.

In effetti l’età non c’entra nulla, visto che un altro personaggio più anziano del nostro eroe è convinto dal famigerato Veltronix a candidarsi nelle liste del PD. Il vero motivo dell’epurazione di Ciriaco è l’accento dialettale che tradisce l’origine meridionale, più esattamente irpina. Dunque, Veltronix ha dimostrato di essere un razzista anti-meridionale, ma non ha compreso chi si è inimicato. Ora il nostro eroe ha una ragione in più di vita e può coltivare la più nobile ed eroica tra le passioni umane, cioè la vendetta.

 La sete di rivincita lo induce a spendere tutte le sue energie per restituire lo smacco ricevuto dall’acerrimo nemico Veltronix, contribuendo alla capitolazione del PD, ma soprattutto alla sconfitta di un suo “ex pupillo” locale, l’onnipotente sindaco di Lioni.

 Le competizioni elettorali che si stanno disputando in questi giorni in alcuni centri dell’Alta Irpinia potrebbero rivelare esiti imprevisti. La campagna elettorale ha già riservato i primi colpi di scena, ma il bello deve ancora venire. Non intendo anticipare le sensazionali sorprese contenute nel film, per cui vi consiglio di non perdere l’epilogo.

 La leggendaria saga dell’Uomo del monte, imperatore dell’Alta Irpinia, non si è ancora definitivamente compiuta, ma continuerà ad essere rappresentata sul grande schermo.

 To be continued

Lucio Garofalo

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Negli ultimi anni il problema delle tossicodipendenze è uno dei fenomeni sociali che hanno subito una notevole accelerazione storica, assumendo proporzioni sempre più ampie e massicce. Questo dato è uno dei segnali che attestano in modo inconfutabile i mutamenti economici, sociali e culturali avvenuti nella società, che ormai è una società di massa, in cui prevalgono tendenze e comportamenti edonistici e consumistici di massa, per cui è inevitabile che anche il consumo di droghe si affermi come un’abitudine sempre più diffusa, anzitutto per gli effetti di emulazione e omologazione culturale, cioè in virtù di un efficace strumento di persuasione, comunemente definito “moda”.

È necessario assumere un approccio metodologico possibilmente razionale e rigoroso rispetto a tali problematiche, per evitare di incorrere in errori di natura emotiva, che potrebbero inficiare le possibilità di conoscenza, ostacolando in partenza ogni tentativo di risposta politicamente valida e credibile. In altre parole, lo spirito con cui credo si debba affrontare la tematica delle tossicodipendenze è quello espresso in chiave artistica in alcuni cult-movie quali “Amore tossico” del 1983 e “Trainspotting” del 1996, rifuggendo da ogni pregiudizio moralistico, per porsi in un’ottica scientifica e analitica.

Pertanto, occorre riflettere, ad esempio, sul fatto che la droga nella nostra epoca occupa il posto che un tempo apparteneva al diavolo e alle streghe, o al lupo cattivo nelle favole per i bambini, cioè il ruolo che contrassegna l’elemento negativo e diabolico per antonomasia: il male. E questo è già di per sé una iattura, nel senso che costituisce un approccio profondamente errato e fuorviante, che inevitabilmente induce l’opinione pubblica a legittimare e avallare scelte politiche filo-proibizioniste, ad invocare provvedimenti autoritari e leggi “eccezionali” che non risolvono il problema, bensì lo aggravano, per scatenare risposte squisitamente repressive. In tal modo si rischia di accrescere e inasprire l’entità del fenomeno, introducendo un aspetto di allarmismo e terrorismo psicologico, una questione di polizia e di ordine pubblico che si sovrappone ad una problematica che è di natura medico-sanitaria, culturale e socio-educativa.

In questo discorso una posizione centrale è occupata dalla mercificazione del “tempo libero”. La società borghese ha ormai imposto da tempo un’ideologia mistificante del “tempo libero”, inteso falsamente come una frazione della propria vita quotidiana libera da impegni di lavoro e di studio (nonché di lotta) da poter destinare agli svaghi, ai divertimenti, alle vacanze, ossia ai consumi economici.

Tale mistificazione ideologica è perfettamente funzionale ad un processo di mercificazione e privatizzazione del “tempo libero” che è diventato un ulteriore momento di alienazione dell’individuo nella fruizione passiva e meramente consumistica di prodotti offerti dall’industria del “tempo libero” e del “divertimento” quali, ad esempio, il sesso, la musica, lo sport e, ovviamente, le droghe. Per la serie “sex, drugs and rock’n roll”. Tali fenomeni di massificazione, mercificazione e alienazione del “tempo libero” sono evidenti anche nei piccoli centri di provincia in cui viviamo.

Le periodiche campagne mediatiche sulla criminalità e sull’ordine pubblico sono assolutamente false, ingannevoli e strumentali. Per varie ragioni. Anzitutto, si evita accuratamente di prendere in esame le origini e le cause oggettive della criminalità comune, tanto meno di confrontarla con la criminalità delle classi dominanti (guerre, mafia, omicidi bianchi, bancarotta, fallimenti, evasione fiscale, ecc.) che non viene mai menzionata dai mass-media ufficiali. Per gli organi di informazione l’unica criminalità esistente è quella dei proletari, degli emarginati, dei migranti, degli oppressi. Le classi dominanti mantengono il sistema con la violenza, attraverso il monopolio e l’esercizio esclusivo della forza pubblica, riversando la loro violenza sul proletariato e sulle classi lavoratrici, in modo particolare sul sottoproletariato giovanile più marginalizzato.

A tale scopo sono funzionali alcuni meccanismi costruiti ad arte come, ad esempio, il “teppismo” negli stadi di calcio e le “droghe illegali”. Ormai le violenze legate alla sfera degli stadi di calcio, da episodi “eccezionali” sono diventati la “normalità”, una situazione accolta come un fatto naturale, da aborrire e ripudiare solo in forma ipocrita e rituale, fornendo spunti per inutili dibattiti sulla carta stampata e in televisione.

Siamo di fronte ad una perversa e cinica opera di criminalizzazione della vita quotidiana, che si avvale di molteplici strumenti (economici, sociali, politici, legislativi) tra i quali figura anche il regime proibizionista vigente in materia di alcune droghe.

Sul piano economico e politico una sostanza come l’eroina è perfettamente funzionale ad un sistema basato sul dominio e sulla criminalità di classe. Dal punto di vista economico, benché l’eroinomane non costituisca una forza-lavoro intesa secondo i canoni tradizionali, tuttavia egli, essendo in pratica uno schiavo della sostanza, un maniaco dipendente, pronto a tutto, a rubare, a spacciare, ad alimentare il mercato (nero), produce reddito (illegale) in quanto forza-lavoro, come, anzi meglio di un lavoratore normale, pretendendo in cambio nessun salario e nessun contratto sindacale.

Sul versante politico gli assuntori di eroina non solo cessano di opporsi attivamente al sistema, ma offrono un terreno fertile per la repressione e la provocazione contro i movimenti giovanili di lotta e di protesta. In determinati momenti storici le droghe si sono rivelate molto utili in chiave repressiva contro i movimenti giovanili, contro le minoranze etniche e sociali, contro le avanguardie politiche che si contrapponevano frontalmente al sistema sociale dominante. Non a caso, l’eroina venne usata come una sorta di “manganello” dalle classi dominanti di ogni paese per annientare la contestazione giovanile degli anni ‘60 e ’70. Ma non c’è stata solo l’eroina. Infatti, anche altre sostanze sono state utilizzate in passato in funzione politica repressiva.

Alcune droghe pesanti sono state impiegate scientificamente soprattutto in funzione politica conservatrice e controrivoluzionaria, per sedare i fenomeni di mobilitazione e di rivolta ritenuti una pericolosa minaccia per l’ordine costituito, cioè per l’ordine padronale. Ad esempio, negli Stati Uniti durante gli anni Settanta, la diffusione pilotata di droghe quali l’eroina, la morfina, l’acido lisergico, venne decisa e posta in essere per consentire un minor ricorso alla forza repressiva della polizia e del carcere, al fine di annichilire e neutralizzare quelle esperienze di controcultura e ribellione giovanile in voga in quel periodo, nonché le lotte e le organizzazioni politiche della gente afroamericana. Il Black Power, il Black Panther Party, i Musulmani neri, gli hippies, i Weatherman e altri movimenti sovversivi statunitensi, furono sgominati anche attraverso la diffusione pilotata di sostanze tossiche come l’eroina e altre droghe deleterie.

La reazione della classe dominante statunitense non si concretizzò e non si misurò solo con i tradizionali strumenti di repressione esercitati dagli agenti dell’ordine (quelli regolari: esercito e polizia; quelli irregolari: squadrismo di destra), per cui centinaia di militanti neri e attivisti bianchi furono assassinati e altre migliaia incarcerati, ma altresì con un intervento, altrettanto brutale e repressivo, condotto sul versante culturale, mediante la diffusione (promossa e pilotata ad arte) delle droghe e della “cultura delle droghe” all’interno delle realtà dei suddetti gruppi e movimenti politici antagonisti, che in tal modo vennero definitivamente sconfitti. Si pensi alla gioventù nera americana, sterminata e brutalizzata fisicamente e mentalmente dal flagello delle droghe, danneggiata anche finanziariamente e costretta a delinquere, poiché per il drogato l’unica possibilità di sopravvivenza è il furto, che egli compie esclusivamente a scapito della propria comunità, la comunità afroamericana, e non contro la società bianca.

Questa operazione repressiva fu concepita e diretta dalla CIA (il cervello strategico e organizzativo dell’eversione e della controrivoluzione internazionale), ma fu condotta grazie al contributo apportato dalla criminalità mafiosa sicula americana e al ruolo di complicità fornito dai vertici dell’esercito nordamericano, all’epoca impegnato nella guerra in Vietnam. Un paese che insieme al Laos e alla Thailandia formava il famigerato “triangolo d’oro” delle coltivazioni di oppio. Oggi, tale primato negativo appartiene all’Afghanistan, dove non a caso è in atto un conflitto bellico guidato dall’imperialismo nordamericano, al cui seguito arrancano molte pecorelle, tra cui l’Italia.

L’eroina fu diffusa prima tra i giovani dell’esercito in Vietnam, per poi essere esportata nel mercato interno nordamericano, al fine di disgregare la realtà dei movimenti di lotta che stavano crescendo soprattutto tra le minoranze di colore, sollevando e organizzando politicamente il proletariato giovanile afroamericano, minando seriamente le basi della società statunitense. Il festival pacifista di Woodstock (un megaconcerto hippie di tre giorni vissuti all’insegna della pace e della musica, tenutosi nell’agosto 1969) fu l’occasione propizia in cui i vertici della CIA vollero sperimentare gli effetti delle droghe in un contesto di massa, per cui ordinarono alla polizia di non intervenire, per favorirne la libera diffusione tra le migliaia di giovani partecipanti alla manifestazione musicale alternativa. Ebbero modo di verificare che i giovani intossicati e storditi dalle droghe diventavano praticamente innocui, per cui decisero di ricorrere massicciamente alle nuove armi, che si rivelarono micidiali soprattutto per annientare il proletariato giovanile afroamericano. In breve tempo i movimenti antagonisti scomparvero dalla scena politica statunitense. Come avvenne in Italia alla fine degli anni ’70. L’eroina si dimostrò più efficace dell’opera di repressione condotta dalle forze dell’ordine e dalle istituzioni statali ai fini della salvaguardia del sistema capitalistico occidentale. L’eroina fu dunque un elemento determinante intervenuto nella lotta di classe di quel periodo.

Le droghe pesanti furono funzionali all’azione repressiva condotta dalle forze del capitale per sconfiggere le vertenze sindacali e le battaglie rivendicative della classe operaia statunitense, per contrastare e narcotizzare i movimenti del proletariato giovanile afroamericano, per soffocare le lotte delle avanguardie politiche organizzate, per porre un freno alla rivoluzione sociale e intellettuale che si era compiuta nel decennio intercorso tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’70. Una rivoluzione che investì anche il costume dell’epoca, modificò radicalmente lo scenario culturale, la mentalità, la sfera sessuale, i comportamenti, le abitudini di vita, i gusti, i bisogni delle nuove generazioni del mondo non solo occidentale. Gli anni ‘80 furono, invece, gli anni del disimpegno politico, del riflusso qualunquistico, della restaurazione, e non a caso furono contrassegnati da una vera e propria escalation della diffusione ed espansione del mercato e del consumo delle droghe, sia di quelle leggere che di quelle pesanti.

Le tossicodipendenze sono solo un sintomo di un malessere più grave e sotterraneo, che sembra affliggere soprattutto la condizione giovanile, ma in realtà investe la condizione umana complessiva, coinvolgendo l’universo sociale in modo trasversale. Naturalmente, i tossicomani che provengono dalle famiglie più abbienti possono usufruire dei privilegi derivanti dalla loro estrazione sociale, mentre i drogati che appartengono alle classi inferiori e più disagiate non riescono a godere dei medesimi vantaggi. Al contrario, sono duramente penalizzati e stigmatizzati, costretti a delinquere per procurarsi la “roba”, condannati a frequenti periodi di reclusione, per essere infine emarginati dalla società.

Dal punto di vista della classe sociale, non è affatto vero che un tossicomane proletario sia uguale a un tossicomane borghese, sia per la mancanza di possibilità materiali necessarie ad un’adeguata terapia disintossicante oppure ad acquistare la sostanza, sia per un diverso rapporto culturale e sociale con l’ambiente. Al contrario di un eroinomane borghese, quello di origine proletaria vive l’esperienza con la droga direttamente contro la sua classe di appartenenza, a favore del mantenimento dei rapporti capitalistici.

Non esito a pensare che le droghe non sono proibite perché pericolose, ma sono pericolose proprio perché proibite. Questo è il parossismo allucinante, la contraddizione inafferrabile che si annida persino nelle realtà ritenute (a torto) più “amene”. Il punto centrale del dibattito sulle droghe dovrebbe essere esattamente il regime proibizionista che ha deformato la visione delle cose, per cui un problema medico-sanitario, socio-educativo e culturale, è stato ridotto ad una questione di ordine pubblico, diventando una vera e propria “emergenza criminale”, strumentalizzata per scopi elettorali.

Ritengo necessario chiedersi onestamente se l’attuale normativa proibizionista riesca a debellare ed eliminare il “flagello” delle droghe. Di fatto, il regime proibizionista può a malapena scalfire la dura corteccia che avvolge la mala pianta. Lo confermano le più aggiornate stime statistiche che rivelano un costante incremento del consumo di sostanze tossiche (soprattutto di tipo sintetico) tra le giovani generazioni, segnalando in particolare una pericolosa tendenza verso la precocizzazione di tali abitudini.

Il proibizionismo è dunque più assurdo e nocivo del consumo stesso di droghe, in quanto tale sistema penale non risolve il problema, né lo intacca minimamente, ma si limita solo ad occultarlo in modo ipocrita e sciocco, negando l’evidenza, ossia che le droghe circolano ugualmente, anzi in misura maggiore rispetto a una legislazione più tollerante e permissiva, che provi a regolamentare e legalizzare il consumo depenalizzando i comportamenti che attualmente sono puniti come reati, così da alleggerire il carico di lavoro sopportato dal sistema giudiziario e penitenziario. Infatti, è proprio un regime di tipo proibizionista che permette in concreto, pur imponendo un divieto puramente rituale, una liberalizzazione crescente del consumo, un’espansione del narcotraffico e del mercato nero, gestito dalla criminalità mafiosa, che grazie a tali proventi fiorisce come una pianta malefica, con tutte le conseguenze devastanti in termini di costi umani, sociali, economici, politici e giudiziari, che inevitabilmente ne derivano.

Oggi è sempre più impercettibile, se non inesistente, il confine tra legalità e illegalità, in particolare tra economia legale e illegale, tra la “mafia capitalista”, inserita nei circuiti finanziari istituzionali, e la criminalità mafiosa convenzionalmente intesa. Il crimine è assunto al livello della legge su scala mondiale. Quella che prima si poteva considerare come una “devianza dalla norma” si è tramutata nel suo esatto contrario, giacché la devianza si è imposta come norma, intendendo per “devianza” soprattutto il delitto, a cominciare dai peggiori crimini commessi dal sistema capitalistico globale.

Lucio Garofalo

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Ricordate le polemiche sollevate dall’indulto concesso dal Parlamento italiano nel 2006? Ebbene, alla luce dei recenti episodi di cronaca, credo che non ci siano dubbi sul suo fallimento. Le tragiche vicende di questi giorni hanno riportato alla ribalta dell’attualità politica nazionale il tema, sempre rovente, della giustizia e della sicurezza carceraria in Italia, ossia la questione della giustizia borghese, dei diritti e della giustizia in una società ancora classista come la nostra, forse più che nel passato. A tale proposito credo valga la pena di spendere qualche parola, riflettendo a partire da alcuni dati di fatto.

Anzitutto, il provvedimento d’indulto approvato a larghissima maggioranza dal Parlamento italiano il 29 luglio 2006, venne spacciato come un legittimo e doveroso atto di clemenza e giustizia compiuto dallo stato italiano per sanare la gravissima emergenza in cui tuttora versano le strutture penitenziarie del nostro paese. Non è un caso che gli unici voti nettamente contrari siano venuti da Antonio Di Pietro e dai suoi fedelissimi iper-giustizialisti, dai codini della Lega e dai post-fascisti, ossia dai settori più apertamente reazionari e forcaioli ad oltranza presenti nel panorama politico italiano.

Il provvedimento emesso all’epoca era appunto una misura tampone, destinata a sospendere il problema in maniera temporanea, quasi a rimuovere i pesanti sensi di colpa che turbavano la coscienza sporca della classe politica dirigente, sensi di colpa derivanti dalle inaccettabili e vergognose condizioni di vita in cui è costretta la popolazione carceraria. Insomma, prima che esplodesse qualche rivolta sanguinosa si è ritenuto opportuno prevenire i danni, anziché affrontarli in seguito, quando è più difficile rimediarvi. Di primo acchito si potrebbe convenire con lo spirito di saggezza e di indulgenza che pare avesse ispirato e dettato la suddetta disposizione legislativa.

Si trattava di una misura puramente emergenziale, che tuttavia non ha risolto nulla, dato che gran parte dei detenuti rimessi in libertà nei mesi successivi all’indulto, sono progressivamente rientrati in galera, avendo ripreso a delinquere, come d’altronde era prevedibile che facessero. Arrestati e condannati una prima volta, se non più volte, molti detenuti sono stati scarcerati grazie all’indulto, per essere nuovamente arrestati, condannati e reclusi, in attesa di un nuovo sconto di pena. E’ chiaro allora che il vero scopo del condono da parte dello Stato era un altro, molto più subdolo ed ingannevole.

Alla base di un simile gesto di “clemenza” risiedeva la volontà politica di occultare la natura reale, autoritaria e repressiva dello Stato quale detentore del monopolio della forza pubblica. In quanto tale, esso impone con la violenza e con la minaccia di ritorsione, le sue leggi, le sue strutture e le sue istituzioni, le sue ingiustizie e le sue contraddizioni, facendole accettare come “diritto”, cioè come “giustizia”, “ordine costituito”, ecc. Ma il delitto non può essere trasfigurato come “regola”, l’ingiustizia non può essere spacciata come “legge”, la violenza dell’oppressione, dello sfruttamento, della miseria, dell’emarginazione, non può essere camuffata sotto la veste ipocrita del “diritto” e di un “ordine costituito”, che pertanto non possono essere messi in discussione né essere sottoposti a critica, e tanto meno essere modificati.

La logica e l’ideologia imperanti nella nostra società pretendono che si consideri la violenza, l’ingiustizia, lo sfruttamento materiale, la guerra, quali forme e fenomeni di un “ordine naturale” del mondo, che è dunque inevitabile e permanente, ossia uno stato di cose assolutamente immutabile. Eppure la società borghese in cui viviamo è totalmente sorretta ed incentrata sulla violenza e sul delitto, tutti i suoi rapporti economici e sociali sono imperniati sull’ingiustizia, sull’ipocrisia, sulla mistificazione.

Pertanto, il senso recondito di un provvedimento di indulto come quello adottato dal Parlamento nel 2006, è senza dubbio un obiettivo ideologico e strumentale. Si è trattato di un’operazione di propaganda e di mistificazione politica, tesa ad esibire il volto “buonista” e “garantista” dietro cui si ripara il vero volto del potere, l’anima brutale della violenza poliziesca e della repressione carceraria, dell’ingiustizia e della ritorsione di classe, la natura lugubre ed oscena, cinica e perversa degli aguzzini in divisa, una realtà turpe e criminale che è venuta fuori in questi giorni, per cui non si può ostentare con eccessiva disinvoltura, ma al contrario deve essere opportunamente nascosta.

La falsa clemenza, la falsa giustizia, e più un generale la falsa democrazia, servono solo a dissimulare il carattere più atroce, cruento e sanguinoso che appartiene ad una società in cui la violenza, il delitto e lo sfruttamento sono all’ordine del giorno, anzi stanno all’origine stessa della società, e si estrinsecano abitualmente in tutti i rapporti concreti della vita quotidiana degli individui, in carcere, in fabbrica, a scuola, in famiglia, dappertutto, persino nei più consueti rapporti d’amore e d’amicizia. In tal senso, l’indulto ha esibito il lato ipocrita e perbenista del sistema attualmente vigente. Non mi riferisco solo al sistema carcerario, ma all’intero sistema sociale, dominato da interessi di profitto, arricchimento e potere, che coinvolgono un’esigua minoranza di soggetti, la cui ferrea volontà condiziona pesantemente lo Stato, la legge e l’ordine, che sono una diretta emanazione storica della classe sociale al potere.

Recentemente, su un canale televisivo satellitare, hanno riproposto uno stupendo film di Giuliano Montaldo, “Sacco e Vanzetti” del 1971, interpretato da due attori straordinari, Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla, calati nei panni dei due anarchici. E’ un capolavoro cinematografico di gran pregio, impreziosito da una superba colonna sonora composta da Ennio Morricone, la cui interpretazione canora è stata affidata all’incantevole voce di Joan Baez, la più importante cantautrice pop statunitense.

Al termine della visione del film, dopo essermi commosso ancora una volta, ho pensato alla dolorosa ingiustizia sofferta dai due anarchici italiani (riabilitati tardivamente, ossia post-mortem, dalle autorità nordamericane, vale a dire dagli stessi carnefici), una violenza perpetrata dal sistema politico giudiziario statunitense, da quella che viene abitualmente osannata come la più grande ed antica “democrazia” del mondo.

Che si tratti della sedia elettrica o di un’impiccagione, della ghigliottina o della fucilazione, di una decapitazione a colpi d’ascia o un’iniezione letale, ogni modalità tecnica di esecuzione della pena capitale è indubbiamente legata alle condizioni temporali e spaziali in cui vive un determinato ordinamento statale. E’ altrettanto indubbio che persino la civiltà giuridicamente più avanzata, che escluda dal suo codice penale la condanna a morte, sostituendola con un più “umano” ergastolo, e che ogni tanto conceda un’amnistia, un condono, uno sconto di pena, una grazia, mostrando in tal guisa un volto di “clemenza”, in realtà si propone solo di camuffare ipocritamente la sua natura feroce e reazionaria, mistificando l’autoritarismo e l’iniquità di fondo su cui si regge un sistema di tipo classista che ha bisogno di “normalizzare” e “legalizzare” le contraddizioni e le sperequazioni sociali e materiali esistenti.

Restando in tema, mi sovviene un altro film diretto da Luigi Magni, intitolato “Nell’anno del Signore”, uscito nel 1969. In questo film il personaggio principale è Cornacchia/Pasquino, interpretato da Nino Manfredi, uno dei migliori interpreti della commedia all’italiana. Pasquino incarnava la voce del popolo nella Roma papalina, un autore clandestino di versi satirici e irriverenti, scritti sulla statua dell’imperatore Marco Aurelio e rivolti contro il potere temporale della chiesa. Pasquino, a un certo punto del film, afferma in dialetto romanesco: “A noi rivoluzionari ce frega er core!”. Una frase ad effetto che si inquadrava nel contesto storico del biennio 1968/69, con le inevitabili implicazioni che il concetto esprimeva in un momento critico della storia italiana.

Personalmente non concordo con la tesi racchiusa nella frase di Pasquino, che probabilmente parlava a nome del regista Luigi Magni. Non sono d’accordo soprattutto per innegabili ragioni storiche. Infatti, tutti coloro che hanno messo in pratica un tale orientamento politico, attenendosi alla lettera al modello e allo spirito rivoluzionario incarnato da Pasquino e riassunto nella sua frase, hanno miseramente fallito. Si pensi, ad esempio, alle Brigate Rosse in Italia, alla RAF nella Germania Ovest, a tutte le formazioni combattenti emuli delle Br, che hanno adottato una strategia di lotta armata ferrea ed inflessibile, senza “cuore” e senza “pietà”: hanno tutti perso tragicamente.

Persino le rivoluzioni sociali e politiche inizialmente vincenti, quali la rivoluzione bolscevica del 1917 in Russia, hanno condotto ad esiti rovinosi. Come mai? A mio avviso, il problema di fondo sta nel fatto che quando si rimuove “er core”, cioè l’umanità, dalla lotta e dal movimento di una rivoluzione, il rischio che si corre è esattamente quello isolarsi dal carattere e dallo spirito delle masse popolari, per diventare aridi e cinici, più crudeli e spregiudicati del potere che si intende rovesciare. Non si può sconfiggere il nemico emulandolo, altrimenti si rischia di assomigliargli troppo e si finisce per creare un sistema di potere e di oppressione più cruento ed efferato rispetto a quello abbattuto. Io credo che non si debba cercare di sovvertire e conquistare il potere, ma bisogna semplicemente negarlo e ripudiarlo tout-court, senza emularlo o eguagliarlo, evitando di farsi plagiare o sedurre, quindi corrompere, dal suo fascino malefico.

Lucio Garofalo

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In base alle stime ufficiali, fornite dall’Inail, il triste bilancio delle vittime sul lavoro in Italia nel 2008 si è fermato per la prima volta sotto la soglia dei 1200. Un dato apparentemente confortante, che viene vantato dal governo come se fosse un successo. Comunque, l’anno scorso il numero dei morti sul lavoro è sceso a 1.120, cioè al livello più basso dal lontano 1951. Nel Rapporto 2008, l’Inail segnala 874.940 incidenti sul lavoro e 1.120 infortuni mortali, la metà dei quali si è verificata sulle strade. Quindi, nel 2008 i morti sul lavoro sono calati del 7,2 per cento. In realtà, in questo calcolo percentuale, già di per sé inquietante, affiora un ulteriore motivo di preoccupazione: i lavoratori stranieri che si sono infortunati sul lavoro, essendo notevolmente più esposti al rischio infortunistico, sono aumentati del 2 per cento. Dunque, si riducono gli infortuni per i lavoratori in generale, ma tendono a risalire per i lavoratori stranieri. Inoltre, nonostante la lieve flessione registrata nel 2008, tuttavia il nostro Paese continua ad accusare un numero di morti sul lavoro più elevato rispetto alle altre nazioni europee in termini sia assoluti che relativi. E questo solo per attenerci alle cifre ufficiali. Infatti, non dimentichiamo che l’Italia è il paese del lavoro nero, del record di evasione fiscale, dell’economia sommersa, della mafia e dell’illegalità diffusa.

A proposito di decessi sul lavoro non sarebbe fuori luogo sollecitare un’opportuna riflessione, ossia un’operazione di aggiornamento linguistico. Anziché parlare di “morti bianche” (un’espressione che designava le morti in culla, ovvero le morti prive di colpa, che implicano un richiamo al destino, al fato, un riferimento più o meno esplicito a circostanze casuali e a tragiche fatalità) è senza dubbio più corretto e appropriato usare la definizione di “omicidi bianchi”, dal momento che le responsabilità esistono sempre e sono sempre individuabili e perseguibili, almeno dovrebbero esserlo. Così come sono sempre individuabili ed eliminabili i motivi che sono all’origine di quelle morti.

Dunque, in Italia le stragi sul lavoro costituiscono una vera e propria emergenza, malgrado ci si ostini a sottovalutarne l’effettiva portata e la drammaticità, sebbene le priorità nell’agenda del governo siano altre, come pure quelle dell’opposizione, nonostante vengano artatamente falsificate le statistiche a scopo di mera propaganda, benché i mass-media ufficiali continuino ad omettere i dati reali di un bollettino quotidiano che assomiglia sempre più ad un bollettino di guerra. Infatti, dall’inizio del corrente anno il macabro bilancio degli omicidi bianchi ha raggiunto quota 500. La media quotidiana di 3/4 vittime provocate dallo sfruttamento capitalistico, segnala l’idea della “severità” delle norme vigenti e dell’“inflessibilità” della loro applicazione e dei controlli ispettivi. Se non si fosse capito, stavo facendo dell’ironia. Intanto, gli operai continuano a crepare nelle fabbriche, nelle officine, nei cantieri edili, negli ambienti di lavoro,  nei luoghi (malsani e insicuri) dello sfruttamento economico, mentre nessun governo, nessun partito, nessun sindacato può assolutamente intervenire, ammettendo la propria impotenza e dichiarando il proprio fallimento.

A questo punto apro una breve parentesi per ricordare un celebre film d’autore del 1971, “La classe operaia va in paradiso”. Si tratta di uno straordinario capolavoro del cinema militante e politicamente impegnato, diretto dal regista Elio Petri ed interpretato dall’indimenticabile Gian Maria Volonté, nei panni dell’operaio milanese Lulù Massa. Il quale si presenta inizialmente come un fenomenale campione del cottimo, un vero stakanovista della catena di montaggio, ma improvvisamente subisce un incidente che gli procura la netta amputazione di un dito. Sarà in seguito a questo infortunio sul lavoro che l’operaio Massa ritroverà la sua coscienza di classe, acquisendo la consapevolezza della sua condizione di proletario sfruttato ed inizia a lottare con rabbia e determinazione contro il sistema alienante ed oppressivo della fabbrica.

Ebbene, negli ultimi mesi, sia all’estero (soprattutto in Francia) che in Italia, gli effetti destabilizzanti della recessione economica internazionale hanno spinto molti operai, esposti all’incombente minaccia dei licenziamenti, a ribellarsi e ad intraprendere forme estreme di protesta, prima impensabili e sconosciute. C’è l’operaio che tenta drammaticamente il suicidio perché non riesce più ad arrivare alla fine del mese, se non proprio alla metà del mese, ma ci sono anche numerosi casi di lavoratori che scelgono di resistere e lottano strenuamente contro i licenziamenti, contro la disoccupazione e contro la crisi, che i padroni tentano di far pagare alla classe operaia, come sempre.

Detto ciò, espongo in breve un ragionamento di ordine personale, quasi intimistico. Io faccio l’insegnante, per cui appartengo economicamente e socialmente alla piccola borghesia cosiddetta “intellettuale” (si fa per dire). Ora, sebbene io non sia un operaio (lo sono stato, avendo lavorato per qualche mese in alcune industrie prima di entrare nella scuola, per cui ho sperimentato di persona gli effetti dello sfruttamento materiale e del sistema alienante e repressivo imposto in fabbrica), tuttavia mi considero una sorta di “proletario” del sistema aziendale dell’istruzione, un bene immateriale ridotto a merce. Da svendere e consumare, ossia alienare e mortificare.

In ogni caso, anche se fossi stato un impiegato di banca, un medico, un avvocato o un altro professionista, avrei sicuramente espresso la mia solidarietà morale e politica verso le iniziative di lotta e resistenza intraprese negli ultimi tempi da gruppi di operai ribelli, perciò perseguitati, in molte fabbriche, soprattutto del gruppo Fiat. Si pensi ad esempio agli operai in lotta a Pomigliano D’Arco, ai lavoratori licenziati dalla Fiat Sata di Melfi, ai lavoratori che si sono autonomamente organizzati e per questo sono sottoposti all’ennesimo tentativo di criminalizzazione e a un duro attacco repressivo  portato dal sistema mafioso della Fiat e dallo Stato italiano suo complice da sempre. Io ho sempre manifestato la mia simpatia e vicinanza ideologica nei confronti delle lotte condotte dalla classe operaia in ogni tempo e ogni angolo del pianeta. Da sincero e convinto operaista, ribadisco la mia piena solidarietà morale e politica nei riguardi degli operai vittime sul lavoro, vittime dell’ennesimo inganno, dell’ennesima menzogna e dell’ennesima mistificazione perpetrata da governo e sindacati.

Lucio Garofalo

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… E MAESTRO UNICO 

Per illustrare in modo chiaro ed efficace il mio punto di vista critico sull’azione “terapeutica” esercitata dal ministro Gelmini potrei ricorrere ad una metafora molto semplice ed eloquente: penso che la Gelmini stia operando come quel medico che per “rianimare” un paziente quasi agonizzante decide  di sferrargli il colpo letale.

Oggi la scuola è un organismo quasi cadaverizzato, ma non sarà certo la Gelmini, e tanto  meno il super-ministro Tremonti, a farla rinascere, specialmente con interventi di mera amputazione  chirurgica. Al massimo potranno far risorgere, dalle ceneri del passato dove è rimasto  sepolto per decenni, la figura (obsoleta) del “maestro unico”.

Un anacronismo storico e metodologico-educativo che continua a sopravvivere nell’odierna società, malgrado l’abrogazione legislativa e il superamento da parte delle più aggiornate ed avanzate teorie nel campo psico-pedagogico e didattico.

Il “maestro unico” ha continuato ad esistere attraverso la televisione-spazzatura, nell’impero globale delle merci e dei consumi, nel pensiero unico dell’ideologia edonistica e consumistica trasmessa dalla pubblicità commerciale, nell’omologazione e nell’appiattimento culturale imposto alle giovani generazioni degli ultimi anni dal “Grande Fratello” televisivo, un potere economico-ideologico asceso stabilmente al governo della nazione. Un dominio totalitario che include ed oltrepassa il fenomeno del berlusconismo, avendolo assimilato ed inglobato nella propria sfera di influenza.

Il pensiero unico, oggi dominante, si è dunque diffuso in modo subdolo e capzioso, come un virus pernicioso ed insidioso, frutto di un crescente degrado culturale della società italiana (ed occidentale in genere), un degrado antropologico di cui il berlusconismo è solo uno degli effetti (il più evidente e clamoroso, forse) ma non la causa.

Le radici storiche di tale degrado affondano in un’epoca relativamente recente.

Le origini del degrado vanno ricercate più indietro nel tempo rispetto all’avvento di Berlusconi e dei suoi network televisivi privati. Vanno indagate in quella fase storica di transizione che sono stati gli anni ’60, gli anni del “boom” economico-consumistico, gli anni della scolarizzazione e dell’acculturazione (e dell’omologazione) di massa.

Anni intensi e convulsi, segnati da grandi mutamenti socio-culturali, economici e strutturali, anni in cui il “Potere occulto” del mercato e dei falsi bisogni indotti, di cui parlava Pier Paolo Pasolini nei suoi “Scritti corsari”, si imponeva in modo profondo  e duraturo, quasi definitivo, affossando la millenaria cultura contadina, una cultura statica ed immobile, in cui era rimasto chiuso ed immerso gran parte del popolo italiano.

Oggi questo degrado è come un’affezione tumorale causata da una contaminazione originaria risalente a diversi anni addietro, ma che esplode improvvisamente, degenerando in una metastasi cancerosa irreversibile e conducendo irrimediabilmente allo stadio terminale. L’ultimo stadio della società tardo-capitalista.

 

Lucio Garofalo 

I care” (dice Veltroni l’americano) “I precare” (dice un lavoratore precario) 

*** 

“L’Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa” 

“L’uomo medio è un pericoloso delinquente, un mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista”

(PIER PAOLO PASOLINI, Mamma Roma, 1962)

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A PROPOSITO DI “EMERGENZE”
“Il fascismo potrà risorgere a condizione che si chiami antifascismo”
(Pier Paolo Pasolini)
 
In merito ad alcuni appelli e comunicati apparsi sul blog della cosiddetta “Comunità Provvisoria” mi permetto di muovere alcune obiezioni personali. Non serve a nulla attaccare i pezzi da novanta, firmare appelli contro Napolitano o prendersela con Realacci, Bertolaso & soci. Ci penserà la magistratura a fare piazza pulita dei “rifiuti politici”. Il problema vero è un altro.
Questi signori nominati in continuazione da Arminio, specialmente il cavaliere di Arcore, rischiano di assumersi ben altre responsabilità, molto più gravi e deleterie per la già fragile e monca democrazia italica.
La cosiddetta “emergenza rifiuti” è ormai diventata un facile e comodo pretesto per innescare un’altra “emergenza” molto più esplosiva e pericolosa. Mi riferisco ad una vera e propria emergenza democratica.
Quando un paese che si proclama “democratico” come l’Italia, per affrontare e risolvere un problema come quello dei rifiuti, che dovrebbe essere gestito facilmente in termini di normale amministrazione (come avviene in tutti i paesi davvero civili), minaccia di ricorrere alle forze armate e alla mano dura, ordinando alla polizia di manganellare le donne e addirittura i bambini inermi, significa che non viviamo più in un sistema democratico ma in un vero e proprio stato di polizia.
Se poi questa vertenza “locale” che è ormai diventata di ordine pubblico, la inquadriamo in un contesto più globale e complessivo, in cui riscontriamo altre tessere che appartengono allo stesso mosaico, ossia altre questioni che vengono trattate e affrontate come emergenze di ordine pubblico, sul piano puramente repressivo e militare, allora è facile dedurre in maniera sillogistica che siamo prossimi all’avvento di un regime autoritario  e poliziesco, vale a dire prossimi al criptofascismo.
Mi riferisco al tema della “sicurezza”, al pacchetto di norme e provvedimenti di legge che introduce, solo per citare un esempio emblematico, il reato di “immigrazione clandestina”. Provvedimenti che tradiscono e rivelano la matrice ideologica eversiva e anticostituzionale che ispira le risposte brutali e criminogene del governo.
Mi riferisco anche alle campagne di allarmismo mediatico e psicologico che hanno contribuito ad istigare e assecondare i peggiori istinti della gente. Campagne che hanno evocato e suscitato un clima razzista, autorizzando e scatenando tutte le pulsioni securitarie, xenofobe e violente, prima latenti. Per la serie “quando il rimedio è peggiore del male”! Ma siamo solo all’inizio…
Concludo affermando che la “mano dura” adottata contro gli immigrati e contro le popolazioni locali che protestano per salvaguardare il proprio territorio dallo scempio delle discariche, è solo un segnale che indica la vera natura di un governo “forte con i deboli e debole con i forti”. Questa è sempre stata la principale caratteristica di tutti i governi di stampo fascistoide, di tutte le tendenze politiche autoritarie, di matrice demagogica e populista.
Infatti, non mi aspetto la medesima fermezza e durezza in materia, ad esempio, di evasione fiscale o di altri interessi legati ai poteri realmente forti ed influenti che condizionano da sempre il destino di questo sciagurato paese che è l’Italia. Una nazione il cui processo di “unificazione” fu soprattutto opera, non a caso, di due tendenze occulte, cospirative ed eversive, quali la massoneria e la mafia. Non a caso, lo Stato italiano, inteso come istituzione ufficiale, è ancora oggi l’involucro esterno sorto a protezione del peggiore capitalismo affaristico di origine criminale, retto sul potere massonico-piduista e della malavita organizzata, di tipo mafioso e camorrista.
Non è un caso che oggi riscuotano uno straordinario successo di critica e di pubblico due film come “Gomorra” e “Il Divo”, attualmente in fase di proiezione in tutte le sale cinematografiche italiane. Due opere che suggerisco di vedere.
 
Lucio Garofalo

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Per non dimenticare Peppino Impastato

 

Oggi ricorre il 30esimo anniversario dell’omicidio politico di Peppino Impastato, assassinato brutalmente da sicari mafiosi. La mafia ha ridotto a brandelli il suo corpo ma non ha fermato le sue idee, né piegato il suo coraggio interiore e la sua onestà intellettuale, non ha spezzato la sua dignità, né dissolto la sua energia spirituale.
La mafia ha ucciso Peppino ma non ha soppresso la libertà e i diritti che egli ha sempre propugnato e difeso con tutte le sue forze, battendosi contro l’ingerenza e il controllo oppressivo esercitato dalla criminalità organizzata sulla vita dei cittadini, contro l’occupazione militare mafiosa del territorio e della società, contro la speculazione edilizia, il malaffare e la corruzione politica.
La mafia non è riuscita ad annientare  il simbolo ideale e politico che ancora oggi, a distanza di trent’anni, Peppino rappresenta per le nuove generazioni. Le quali lo hanno riscoperto grazie al celebre film diretto da Marco Tullio Giordana, “I cento passi”, nel quale il ruolo  di Peppino è magistralmente interpretato dal brillante attore Luigi Lo Cascio.
Per chiunque voglia saperne di più su Peppino, in omaggio alla sua memoria e alle sue idee intramontabili, vi propongo una raccolta di link.

PEPPINO IMPASTATO

UCCISO IL 9 MAGGIO 1978

LE SUE IDEE NON MORIRANNO MAI

“LA MAFIA E’ UNA MONTAGNA DI MERDA” 

“I CENTO PASSI”   

Infine, suggerisco di consultare i seguenti siti:

www.peppinoimpastato.com

www.centroimpastato.it

www.retedigreen.com/index-8.html

 

HASTA SIEMPRE PEPPINO!

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DE MITA 4, LA VENDETTA 

Dopo “De Mita, l’ascesa al potere”, il primo film dedicato alla leggenda demitiana, che ha ricostruito la vita del protagonista dalla nascita in quel di Nusco, un paesino arroccato sui monti irpini, fino all’eroica scalata al vertice del potere politico, quando nelle sue mani si concentrarono la segreteria nazionale della Democrazia Cristiana e la guida dell’esecutivo; dopo “De Mita 2, la caduta”, che ha descritto la fase discendente della parabola demitiana, attraverso le vicende di Tangentopoli che hanno scatenato quella sconvolgente bufera giudiziaria che determinò la fine della Prima Repubblica, decretando in modo particolare la caduta ingloriosa del craxismo e del regime incentrato sull’asse denominato C.A.F (Craxi-Andreotti-Forlani); dopo “De Mita 3, la ripresa”, che ha narrato la fase successiva della carriera politica di Super-Ciriaco, sopravvissuto eroicamente alla tempesta di Mani Pulite, e la sua netta ripresa dopo l’avvento della Seconda Repubblica e la “discesa in campo” del cosiddetto “nuovo che avanza”, alias “Unto del Signore”, “Cavaliere Nero” o come dir si voglia; uscirà prossimamente in tutte le sale cinematografiche l’ultimo film della epica saga dedicata all’imperatore di Nusco. Il titolo è “De Mita 4, la vendetta”, scritto, diretto e interpretato dal mitico Ciriaco in persona. Un film da non perdere assolutamente!Il film racconta come, dopo l’amara esclusione dalle liste elettorali del PD ad opera del finto “buono”, il cinico Veltronix, il nostro eroe, a 80 anni suonati, decide di abbandonare il partito per aderire alla formazione politico-elettorale della Rosa Bianca.Da quel momento, nel suo animo coverà un solo sentimento e mediterà un solo scopo: vendicare il torto subito dal suo perfido nemico. Il quale, con la scusa dell’età, lo ha malamente estromesso dalle candidature costringendolo ad uscire dal partito stesso, dopo che lo stesso Ciriaco, con la sua influenza, aveva contribuito alla creazione del PD e al trionfo di Veltronix alle elezioni primarie del Partito Demo(n)cratico.In realtà l’età non c’entra nulla, visto che un altro celebre personaggio, sicuramente più anziano del nostro eroe, è stato convinto da Veltronix a candidarsi nelle liste del PD.Il vero motivo dell’epurazione di De Mita è il suo accento dialettale, che tradisce la sua provenienza meridionale, dunque è la sua origine campana, precisamente irpina. Pertanto, Veltronix si è dimostrato solo un razzista anti-meridionale. Ma appare evidente che Veltronix ignora chi si è messo contro. Il nostro eroe avrà d’ora in poi una ragione in più di vita, potrà coltivare la più nobile ed eroica tra le passioni: la vendetta!Questa sete di rivincita lo indurrà ad impegnarsi con tutte le sue forze per restituire lo smacco ricevuto dal suo acerrimo nemico, contribuendo magari ad un’atroce sconfitta alle prossime elezioni parlamentari. Infatti, la competizione elettorale ingaggiata in Campania, in modo particolare la partita che si disputerà nel piccolo collegio irpino, potrebbe rivelarsi determinante addirittura per l’esito finale delle prossime elezioni politiche nazionali, soprattutto per quanto riguarda i seggi assegnati al Senato attraverso il premio di maggioranza previsto dall’attuale legge elettorale.La campagna elettorale, appena intrapresa, sta per concedere i primi, eclatanti colpi di scena. Ma siamo soltanto agli inizi, il bello dovrà ancora venire…Non intendo anticipare le sensazionali sorprese riservate dal film, per cui vi consiglio di non perderlo.(To be continued) Lucio Garofalo

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