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Archive for agosto 2009

LIBERTA’ E’ PARTECIPAZIONE

“La libertà, non è star sopra un albero
non è neanche il volo di un moscone
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione.”

Concordo con Giorgio Gaber circa l’idea di libertà come partecipazione. Sono convinto che la suprema forma di libertà consista nella democrazia diretta e partecipata.

A proposito di partecipazione politica, il sottoscritto partecipa alla vita politica, locale e nazionale, sin da quando aveva appena 15 anni e frequentava l’ambiente, assai politicizzato, di Radio Popolare Lioni e il gruppo di Democrazia Proletaria dell’epoca, il cui leader era l’attuale sindaco di Lioni, passato da DP al PD!

Rammento anche un’idea partorita nel lontano 1986: insieme ad altri giovani di Lioni fondammo il CRAC, Centro Ricreativo di Aggregazione Culturale, una sorta di collettivo politico autonomo e di circolo contro-culturale che diede vita ad esperienze artistiche e culturali molto interessanti e straordinarie per gli anni ’80, anni di disimpegno e riflusso nel privato, di vuoto desolante sul versante culturale, sociale e politico. Esperienze che andrebbero riscoperte e fatte conoscere alle giovani generazioni, come una cassetta di Canti popolari lionesi e una pubblicazione cartacea, “I quaderni dell’Ofanto”.

Tornando al discorso odierno, aggiungo che la partecipazione dei cittadini varia e dipende anche dalle forme di partecipazione messe a disposizione, nonché dalle azioni e dalle intenzioni messe in pratica. Personalmente, ho rinunciato alla militanza attiva e alla partecipazione diretta nella realtà politica di Lioni per evidenti ragioni e cause oggettive, in qualche misura indipendenti dalla mia volontà.

Mi riferisco anzitutto all’assenza di un partito autenticamente comunista o, comunque, antagonista e alternativo all’esistente. Un partito che voglia e sappia esercitare il ruolo dell’opposizione rispetto alle forze che detengono il potere politico a Lioni, che amministrano gli affari e gli interessi di gruppi ristretti e controllano la vita politica, economica e sociale della nostra sventurata comunità.

Chiarisco subito che adottando la nozione di “partito” non intendo riferirmi tanto alla struttura logistica, ai locali dove riunirsi, discutere ecc., quanto soprattutto alle persone in carne ed ossa, al materiale umano, all’organizzazione delle idee e dei compagni, insomma ad un soggetto collettivo in cui potersi riconoscere per non restare isolati.

Ricordo che il Circolo Prc di Lioni venne creato nel 1995 proprio in virtù di un’audace iniziativa politica del sottoscritto, ossia la candidatura alle elezioni provinciali dello stesso anno. Inoltre, il nucleo storico che decise di formare il circolo si era già consolidato attraverso una precedente esperienza di partecipazione legata al Collettivo politico “4 gatti”, la cui idea si deve ancora una volta all’impegno del sottoscritto.

Negli anni successivi, specie dal 2000 al 2003, ho continuato a partecipare alle iniziative promosse dal circolo, alle vertenze sul territorio, come ad esempio le lotte degli operai nelle fabbriche dislocate nelle aree industriali locali. Ricordo anche la mia partecipazione alle elezioni comunali del 2003, nella lista di Rifondazione Comunista. Senza dimenticare la partecipazione alle lotte e alle manifestazioni del movimento no-global, da Genova nel luglio 2001 al Social Forum Europeo di  Firenze nel 2002 e via discorrendo. Insomma, non ho mai rinunciato a partecipare direttamente ed impegnarmi in maniera concreta, esponendomi di persona senza indugi, a mio rischio e pericolo.

Oggi, la realtà socio-politica di Lioni è profondamente mutata (forse è cambiato pure il sottoscritto). Attualmente partecipo alle riunioni che periodicamente vengono organizzate a Napoli dai Comunisti Internazionalisti, ma a livello locale non ho punti di riferimento di tipo politico organizzativo. Questa è una mia colpa? Tuttavia, mesi fa ho avanzato l’idea di costituire  sul territorio provinciale una sorta di coordinamento politico per riunire ed organizzare i “cani sciolti” come il sottoscritto, sparsi in giro ed isolati, ma l’ipotesi è fallita miseramente prima ancora di nascere.

Per concludere, credo che ognuno partecipi nel modo che ritiene più compatibile con le proprie possibilità e condizioni oggettive, anzitutto la disponibilità di tempo materiale, in base alle proprie potenzialità e capacità intellettuali, in base alla propria volontà, insomma nel modo più consono e idoneo alle proprie attitudini e inclinazioni individuali.

Negli ultimi anni sto partecipando soprattutto attraverso il ricorso alla parola scritta, dal momento che in questa fase è l’unica arma di cui dispongo e che riesco ad usare meglio.

Lucio Garofalo

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Democrazia in vendita

Francamente non credo nella possibilità di esportare la cosiddetta “democrazia” in quanto diffido dei falsi principi della democrazia liberale borghese, che reputo uno strumento ideologico di occultamento della reale natura rapace e violenta dell’economia capitalista, retta sull’alienazione e sulla mercificazione dei valori umani, su inique e crescenti disuguaglianze materiali e sociali.

La cosiddetta “democrazia” non è altro che un’ipocrita forma di mistificazione e copertura del delitto più atroce che si possa immaginare: l’alienazione del lavoro umano, lo sfruttamento di masse sottosalariate sempre più indifese e ricattabili, costrette a travagliare per l’arricchimento di minoranze voraci e privilegiate. Ritengo che la tanto osannata democrazia sia solo la “migliore”, forse la più raffinata rappresentazione costituzionale della dittatura borghese. Inoltre, sono convinto che tale ordinamento istituzionale non sia esportabile con procedure arbitrarie e sistemi cruenti, facendo ricorso alla primitiva irrazionalità della guerra.

In particolare, la “democrazia occidentale” non è esportabile in quelle società segnate da un’evidente arretratezza economica, come i paesi egemonizzati dalla presenza di un radicalismo religioso che in passato era avallato dalla politica dubbia dell’occidente. Il quale ha creato gli stessi mostri che oggi proclama di voler combattere, ha armato e foraggiato gli Stati più tirannici del mondo, ovunque e quando conveniva farlo. Penso a quei regimi dispotici e sanguinari, la cui ascesa al potere è stata voluta e caldeggiata proprio dalle potenze occidentali, guidate dagli USA, che hanno favorito e finanziato i movimenti islamici più oltranzisti. Si pensi a figure come Bin Laden, ai gruppi fondamentalisti ostili e bellicosi come i Talebani, armati e appoggiati dal mondo occidentale in funzione chiaramente anti-sovietica durante la guerra in Afghanistan seguita all’invasione compiuta dall’armata russa alla fine del 1979.

“Due pesi e due misure”

Da sempre mi ripugna la linea di condotta ambigua e opportunistica dell’occidente, riassumibile nella formula “due pesi e due misure”, una politica che affama e dissangua i popoli del Terzo mondo, condannandoli ad un destino di miseria e sottomissione.

Anziché lodare a chiacchiere le virtù “salvifiche” della democrazia, invece di proclamare in astratto i “sacri” principi liberali, piuttosto che annunciare velleitariamente la volontà di esportare la democrazia ovunque sia assente, l’occidente farebbe meglio se provvedesse ad impiantarla nella realtà dei propri Stati, sempre meno tolleranti e democratici, sempre più autoritari e illiberali.

L’ideologia dell’esportazione della democrazia serve a fornire un alibi utile a giustificare la carenza di democrazia all’interno delle società occidentali. Come tutte le ideologie, si tratta di un abile travestimento escogitato per coprire i delitti più aberranti. In realtà, dietro la tesi ufficiale della “necessità di esportare la democrazia” si annida un meccanismo di espropriazione violenta delle ricchezze materiali e culturali dei popoli del Terzo Mondo. Al riparo dei magnifici ideali della libertà e della democrazia, sbandierati al cospetto dell’opinione pubblica mondiale, si ammanta una sanguinosa spinta di espansione globalizzatrice esercitata dall’economia di mercato, dalle forze che sono all’origine delle guerre di rapina combattute nel mondo.

Mercimonio democratico

Immaginiamo paradossalmente che io approvi l’idea di esportare la democrazia. Ma anzitutto chi, quale autorità internazionale, in virtù di quali principi (se non sono condivisi da tutti i popoli del mondo) stabilisce l’esistenza o meno della democrazia, accerta il grado di democraticità di uno Stato e decreta, eventualmente, l’opportunità di esportarla, cioè di imporla con la forza delle armi?

Tale logica è semplicemente folle in quanto  concepisce la democrazia alla stregua di una merce alienabile ovunque, un articolo di lusso che non tutti i popoli possono permettersi. E qual è il prezzo corrente sul mercato? Forse milioni di morti o miliardi di dollari?

Dunque, ammesso per ipotesi che io accetti il presupposto di quella concezione che pretende l’esportazione di una lucrosa merce chiamata “democrazia”, perché mai questa deve essere esportata solo in alcune regioni come il Golfo persico, casualmente ricche di pozzi petroliferi, di risorse energetiche e altre pregiate materie prime, o di alcune produzioni che assicurano ingenti proventi economici criminali come, ad esempio, le coltivazioni di oppio in Afghanistan?

In questa fitta rete di scambi e traffici, leciti e illeciti, nel connubio tra politica e affari, si ripara un autentico mercimonio della democrazia, il cui costo in termini di denaro, di capitali, ma soprattutto di vite umane, sembra oltrepassare ogni ragionevole limite e ogni capacità di sopportazione terrena. In altri termini, mi domando se l’abominevole “merce democratica” acquisti maggior valore laddove esistono condizioni oggettive di ricchezza del sottosuolo e preziose fonti di sfruttamento e profitto economico.

Perché questa laida democrazia non viene esportata in altre realtà del mondo, in aree geografiche dove non esistono risorse petrolifere, né materie prime che possano attrarre gli interessi delle potenze occidentali e delle corporation multinazionali? Penso a sterminate regioni dell’Africa, dove intere popolazioni sono massacrate da una micidiale guerra alimentare, sono schiacciate da un apparato economico che genera solo miseria e sottosviluppo, sono perseguitate da feroci dittature militari che si susseguono senza soluzione di continuità con la complicità del mondo occidentale. Il quale finge di piangere, dissimulando commozione solo quando si consumano le catastrofi umanitarie e ambientali, prevedibili con largo anticipo.

L’esportazione brutale della “merce democratica” non sarebbe possibile in tutto il mondo, essendo sconsigliabile un’espansione bellicista globale, essendo inconcepibile una militarizzazione dell’intero pianeta.

In questo osceno binomio tra affarismo criminale e democrazia si svela l’origine di quella cinica e perversa logica dei “due pesi e due misure”: la democrazia non si può e non si deve imporre su tutto il globo, ma solo laddove conviene alle potenze occidentali, per conservare e accrescere i privilegi e l’opulenza economica dei paesi più ricchi. Quindi, per assicurare in perpetuo i profitti dei colossi multinazionali che continuano a rapinare impunemente le ricchezze, non solo materiali, dei popoli della Terra. I quali, in cambio, non potranno nemmeno godere dei vantaggi derivanti dalla “prodigiosa democrazia”.

Questa non intende essere una conclusione definitiva che esaurisce per sempre una riflessione che mi auguro possa proseguire e svilupparsi, fornendo spunti originali per l’interpretazione, ma soprattutto per la trasformazione dello stato di cose esistenti.

Lucio Garofalo

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Leggendo le risposte rilasciate dal Sindaco di Lioni, esattamente sul sito IrpiniaNews, e dall’Assessore Salvatore Ruggiero sul blog TeleLioni in seguito al mio intervento, non intendo affatto sottrarmi ad uno stimolante e proficuo scambio di opinioni.

Anzitutto devo riconoscere che le repliche dei due esponenti istituzionali denotano senza dubbio un certo grado di cultura civile e democratica, per cui ravviso la possibilità di promuovere una preziosa dialettica democratica anche attraverso un vivace confronto a distanza su siti on-line tra i cittadini e i rappresentanti degli enti locali.

La democrazia del futuro viaggia sui canali di Internet e si esplica in quelle che sono le agorà dei giorni nostri, ossia le piazze virtuali di discussione e partecipazione politica. Il web è probabilmente uno degli strumenti più efficaci per superare “uno dei limiti di questa Amministrazione” che, come ammette lo stesso Salvatore Ruggiero, “si manifesta proprio in modo vistoso sul piano della comunicazione verso la cittadinanza”.

Riconosco altresì che l’assenza di un’opposizione seria e credibile non è imputabile all’attuale maggioranza consiliare, così come il deficit di democrazia partecipativa non si può ascrivere alle responsabilità di una sola Giunta municipale, in quanto si tratta di un clima politico, una mentalità e un malcostume che hanno avuto origine in altri contesti e altre esperienze storiche. Ma bisogna anche aggiungere che l’odierna amministrazione, guidata dal sindaco Rodolfo Salzarulo, non si è spesa molto per migliorare la situazione ereditata dalle precedenti gestioni municipali.

La mia riflessione non si riferisce a comportamenti specifici assunti dai singoli amministratori, ma tende ad inquadrarsi in una cornice storica e politica più vasta e complessa. In tal senso, sono pienamente d’accordo con l’analisi suggerita da Salvatore Ruggiero per provare a spiegare e comprendere la regressione e l’imbarbarimento culturale, civile e politico compiuto dalla società italiana negli ultimi venti o trent’anni.

Pertanto, raccogliendo l’invito ad essere più incisivo e costruttivo, mi permetto di rilanciare una proposta politica semplice, immediata ed efficace: il bilancio partecipato.

Al di là delle chiacchiere e dei ricordi nostalgici, una democrazia a partecipazione diretta si traduce in una serie di strumenti e dispositivi tecnico-amministrativi che permettano alla popolazione di contribuire in modo attivo e concreto all’elaborazione e all’esercizio della politica municipale, favorendo la più ampia partecipazione possibile alle decisioni davvero importanti e determinanti per la comunità quali, ad esempio, le scelte concernenti la progettazione e la gestione del bilancio economico comunale.

Raccogliendo l’invito del sindaco di Lioni, mi permetto di suggerire in sintesi le eventuali modalità tecniche e pratiche di attuazione di una simile ipotesi partecipativa.

La partecipazione al bilancio municipale si compie anzitutto su base territoriale: il Comune di Lioni, ad esempio, è diviso in quartieri. Nel corso di pubbliche assemblee la popolazione di ciascun quartiere è invitata ad esprimere e precisare i propri bisogni e stabilire le priorità in vari ambiti di intervento come l’ambiente, la scuola, la sanità.

Il passaggio successivo sarà di integrare le proposte con una partecipazione promossa e allargata su basi tematiche mediante il coinvolgimento delle varie categorie professionali, dei ceti produttivi e dei lavoratori. Ciò permetterà di acquisire una visione più organica e completa del territorio, della collettività e delle sue esigenze reali.

L’amministrazione comunale dovrà essere presente a tutte le assemblee con un proprio referente, che ha il dovere di fornire ai cittadini le informazioni legali, tecniche e finanziarie, nonché per avanzare proposte, evitando con cura di influenzare le decisioni dei partecipanti alle discussioni. Al termine di questo percorso, ogni gruppo espone le sue priorità all’Ufficio di pianificazione, che redige un’ipotesi di bilancio tenendo conto delle priorità indicate in precedenza. Il Bilancio viene infine approvato in una seduta del Consiglio comunale. Nel corso dell’anno, attraverso apposite assemblee, la cittadinanza valuta l’esecuzione dei lavori e dei servizi previsti nel bilancio dell’anno precedente.

Non mi pare che si tratti di una proposta politica astratta e utopistica, anzi. Serve solo la volontà politica di rendere possibile e praticabile anche a Lioni un’autentica democrazia assembleare e partecipativa.

Lucio Garofalo

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Deficit di democrazia nel Comune di Lioni

Partiamo da un paio di semplici domande, che forse potrebbero risultare scomode e imbarazzanti per chi è collocato nelle alte sfere del potere politico locale. Da quanto tempo non viene convocata la popolazione per un avviare un confronto serio, civile e sereno con la Giunta che amministra il paese? Quali strumenti di controllo e quali canali di partecipazione politica diretta sono concessi ai cittadini? A Lioni sono ancora possibili e praticabili forme di gestione partecipativa e momenti di democrazia assembleare?

“Il mondo è piccolo … Sì, ma anche molto cattivo”, è una celebre battuta tratta dal film “Per qualche dollaro in più”, un capolavoro del genere cinematografico spaghetti-western, inventato dal compianto regista Sergio Leone, figlio di uno dei pionieri del cinema muto italiano, quel Vincenzo Leone nato nella vicina Torella dei Lombardi.

Ho citato la frase pronunciata da Wild, il gobbo interpretato da Klaus Kinski, per sostenere che se esiste un deficit di democrazia e di libertà partecipativa sul piano politico nazionale, la realtà locale non appare certo più confortante, anzi. Ormai è un dato di un’evidenza oggettiva ed innegabile: anche a Lioni non si può fare a meno di “rassegnarsi” all’assenza di un’autentica e credibile forza di opposizione e di alternativa al sistema di potere imposto in una piazza che si richiama storicamente alla “sinistra”.

Mi sovviene tale riflessione poiché in questi giorni notavo (non per la prima volta) che la scena politica locale non riserva più sorprese, dando l’impressione che tutto sia già deciso o comunque che tutto taccia. In ogni caso, sia che tutto sia già prestabilito dall’alto, sia che tutto taccia, la conclusione più banale e scontata da trarre è che non esiste più alcuna possibilità di dibattito e di confronto, di critica e di opposizione, sia all’interno delle istituzioni amministrative locali, sia all’esterno, cioè negli spazi sociali.

Di fronte ad un simile contesto di apatia e di omertà sociale, ma soprattutto politica, non si può far finta di nulla e ostentare indifferenza, a meno che non si abbia interesse a mantenere lo stato di cose esistenti o si voglia scongiurare il rischio di inimicarsi un’intera compagine amministrativa, compresi lacchè, cortigiani e giullari, presenti in gran copia nella popolazione, che evidentemente merita la Giunta comunale che ha.

Ammetto spontaneamente (anticipando e prevedendo eventuali obiezioni in tal senso) di non partecipare in modo diretto alle vicende politiche del mio paese da diverso tempo, seppure sia sempre pronto ad informarmi ed interessarmi, almeno teoricamente, per cui sarebbe fin troppo facile e scontato rimproverare al sottoscritto un certo grado di “assenteismo” e “disinteresse”, ma questa non sarebbe un’obiezione valida e corretta, seria e intelligente. Al contrario, si rivelerebbe un’accusa tanto ovvia quanto inefficace.

Sarà probabilmente dovuto anche all’età che avanza (perché il tempo avanza inesorabilmente per tutti, senza alcuna eccezione), oppure alle amare e cocenti delusioni provate in seguito ad esperienze negative di militanza attiva e di impegno politico svolto in prima persona. Sta di fatto che il sottoscritto si è da tempo congedato dalla politica concreta, ma non ha mai smesso di occuparsene in termini astratti.

Ho aperto una breve parentesi per chiarire le cose e sgombrare il terreno da ogni possibile equivoco e da ogni obiezione che rischierebbe di inficiare il senso del ragionamento, che tenta di abbracciare altre questioni e approdare ad altre conclusioni.

Rammento uno slogan caro ad un’intera generazione di giovani lionesi, a cui ricordo di appartenere, una frase molto usata nelle trasmissioni della mitica Radio Popolare Lioni: “RPL: l’unico punto rosso dell’Alta Irpinia”. Oggi quel “punto rosso” costituisce un inquietante allarme rosso, il segnale di una pericolosa deriva autoritaria della politica e della democrazia, così come vengono concepite e praticate anche nelle nostre zone.

In particolare, nel Comune di Lioni manca ormai da anni una vera opposizione, sia a livello istituzionale che sociale, per cui si riscontra un innegabile deficit di democrazia, un vuoto di trasparenza e vigilanza sociale che rischia di consentire ogni arbitrio ed ogni abuso da parte chi detiene il potere decisionale nella Pubblica Amministrazione.

Pertanto, intendo rivolgere un appello alle giovani generazioni, nella fattispecie lionesi, ricordando che in passato altri giovani come loro hanno lottato per non sopportare l’umiliazione del giogo clientelare, per non piegarsi e soggiacere ad una logica ricattatoria secondo cui sarebbe inevitabile sottostare ai voleri e alle richieste di voto provenienti dal candidato di turno, al fine di ottenere in cambio un favore, un posto di lavoro o il soddisfacimento di qualsiasi altro bisogno. Favori promessi ed elargiti in base a metodi borbonici, tuttora applicati per mantenere sotto controllo le popolazioni.

E’ altresì vero che in passato molti giovani hanno reagito, pagando caro l’ardire e l’ardore della ribellione. Tuttavia, le esperienze trascorse, benché negative, non devono avvilire o demoralizzare i giovani di oggi. Cito le parole di un valoroso combattente del popolo, Ernesto “Che” Guevara: “Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso”.

Esorto le giovani generazioni a ridestarsi dal pigro torpore in cui si lasciano sprofondare, ad attivarsi collettivamente per provare a mutare lo stato di cose presenti, per combattere un sistema politico affaristico che non giova a nessuno, ma fa comodo solo a coloro che lucrano e che reggono i fili del potere, esercitando una volontà di comando.

Si può discutere se tale logica clientelare, ricattatoria e spartitoria sia stata accettata o meno da tutti, ma è fuor di dubbio che l’abbia dovuta sposare soprattutto chi, nelle nostre zone, mira alla conquista di una porzione di potere e ricchezza, chi è più cinico ed arrivista, astuto e competitivo, chi coltiva, più o meno apertamente, l’aspirazione ad intraprendere un’ambiziosa (probabilmente presuntuosa e velleitaria) carriera politica.

Sia chiaro che in questo ragionamento il signor Ciriaco De Mita da Nusco c’entra e non c’entra nel senso che, malgrado l’assenza e la “metamorfosi” dell’Uomo del Monte dopo la clamorosa rottura con Veltroni e i vertici nazionali del PD, tuttavia i rapporti, le vicende e le dinamiche politiche che si svolgono all’interno di quella “strana creatura politica” che è il Partito Democratico, non mostrano segni di ripresa e di cambiamento.

Ebbene, il Partito Democratico rappresenta oggi, a Lioni come altrove in Irpinia, il fulcro centrale di un sistema di potere affaristico e clientelare che un tempo faceva capo al signorotto di Nusco. Il quale, dal canto suo, non si è ancora rassegnato a farsi da parte, dare le dimissioni e godersi la pensione, ma continua ad affilare gli artigli in vista delle prossime dispute elettorali, a partire dalle elezioni regionali che si svolgeranno nel 2010.

In conclusione, vanno bene le feste di piazza e le manifestazioni estive, i concerti musicali e le esibizioni canore, le attività artistiche e creative, le gare sportive, le iniziative nel settore del volontariato e dell’associazionismo sociale, ecc. Ma per cambiare il proprio destino e quello degli altri, per incidere nella storia della propria comunità serve ben altro, molto più di un circolo culturale, perché è necessario sapersi organizzare politicamente, occorre riuscire ad elaborare una visione progettuale che sia credibile e convincente, capace di mobilitare ed orientare la gente, perché  la teoria diventa una forza materiale non appena si impadronisce delle masse”. (Karl Marx)

Lucio Garofalo

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LA GELMINI E IL NUOVO ANNO SCOLASTICO

Esordisco con un promemoria per aiutare gli smemorati. Ricordo che con un semplice articolo, inserito all’ultimo istante, l’art. 4 del decreto legge n. 137/2008 dal titolo Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università, meglio noto come Decreto Gelmini, il governo ha reintrodotto la figura del “maestro unico”, azzerando trent’anni di organizzazione e buon funzionamento della scuola elementare. Un’istituzione che, in base alle statistiche internazionali, ha sempre dimostrato di funzionare molto bene, collocandosi ai vertici delle graduatorie mondiali.

Il Decreto è, a tutti gli effetti, una legge dello Stato, essendo stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 1° settembre 2008. Con l’inizio, ormai imminente, del nuovo anno scolastico, si annuncia una vera “rivoluzione” nell’assetto organizzativo e didattico della scuola primaria, una “riforma” imposta con una decisione unilaterale, senza alcun confronto con i sindacati e le varie componenti del mondo della scuola, senza consultare nemmeno il Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione, senza alcuna riflessione di natura teorica, giuridica e tantomeno pedagogica.

Il ministro ha pensato di imporre dall’alto la resurrezione del maestro unico, malgrado siano trascorsi all’incirca vent’anni da quando, con l’istituzione dei moduli organizzativi, questa figura è stata abolita, estendendo a tutta la scuola elementare le pratiche di collaborazione e condivisione di responsabilità tra i docenti, maturate nella sperimentazione del tempo pieno.

L’ordinamento della scuola elementare, fondato sulla pluralità docente, ha consentito agli insegnanti di affinare le proprie competenze didattiche, ha favorito la diffusione di uno spirito di cooperazione, rendendo la scuola elementare una comunità dialogante, ricca di risorse umane e professionali, di stimoli e conoscenze. La pluralità dei docenti, ossia dei modelli educativi, comportamentali e culturali, ha offerto un arricchimento in termini di atteggiamenti, valori e apprendimenti, maturando una crescente apertura verso la complessità multiculturale del mondo contemporaneo.

Ma non c’è solo la restaurazione del maestro unico a destare preoccupazione. Il ritorno all’antico sembra essere una moda, uno stile di questo governo, non solo sul fronte della politica scolastica. Appare chiaro che la Gelmini è una sorta di “ministro ombra” e che la politica scolastica la detta Tremonti. Ricordo un articolo che Tremonti ha inviato al Corriere della Sera il 22 agosto 2008, intitolato “Il passato e il buon senso”, in cui il ministro dell’economia anticipava i temi dei voti, dei libri di testo e del numero dei docenti per classe, indicando la linea da seguire alla Gelmini.

Sul piano occupazionale le conseguenze sono devastanti e si prospetta una vera macelleria sociale. Nel complesso è stato calcolato che il taglio di insegnanti solo nella scuola elementare, per effetto della restaurazione a regime del maestro unico, sommerebbe ad oltre 80mila posti, ma saranno i precari ad essere massacrati.

Pertanto, il governo insegue semplicemente un ritorno al passato che gli permetta di fare cassa, riscuotendo nuovi introiti a scapito della già malconcia scuola pubblica, mentre le risorse finanziarie vengono dirottate altrove. Scimmiottando con 30 anni di ritardo il modello anglo-americano, cioè le politiche neoliberiste che hanno ispirato le amministrazioni ultraconservatrici di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e Ronald Reagan negli USA, il piano del governo Berlusconi è di subordinare la scuola pubblica agli interessi e al servizio del mercato del lavoro. La conseguenza inevitabile sarà lo smantellamento della scuola pubblica, per concedere una formazione d’eccellenza ad una platea sempre più elitaria e procurare una manodopera crescente a basso costo proveniente dalle scuole pubbliche, riservate alle masse popolari.

Questo è ciò che senza indugi il duo Tremonti/Gelmini intende fare del sistema di istruzione del nostro Paese. Una scuola dove il binomio competenze/conoscenze viene cancellato e sostituito dalla voce abilità. Una scuola sempre più simile ad una sorta di “supermercato” dell’offerta educativa e sempre meno comunità educante.

Lucio Garofalo

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Hiroshima e Nagasaki

In queste giornate afose di un’estate che ormai volge al termine, rischiano di cadere in un silenzio assordante due date che rievocano un’immane tragedia per l’intera umanità. Mi riferisco al 6 e 9 agosto del 1945, quando gli americani lanciarono le prime bombe atomiche della storia a scapito delle città di Hiroshima e Nagasaki, che vennero completamente distrutte. Solo nei mesi immediatamente successivi alla deflagrazione i morti furono oltre 200mila. Secondo stime attendibili, fino ad oggi le vittime accertate sarebbero oltre 350mila, a causa soprattutto delle affezioni tumorali prodotte dalle radiazioni atomiche. Tranne sporadiche commemorazioni piuttosto rituali, celebrate in remote località della Terra, nella fattispecie in Giappone, purtroppo in Europa, e tantomeno in Italia, non sembrano minimamente tenute in conto le ricorrenze legate a quegli orribili avvenimenti. Al contrario, stanno passando senza far rumore. A riprova che esiste la ferma volontà di cancellare ed estinguere la memoria di tali esperienze. Quelle dell’agosto 1945 sono state le uniche volte in cui le armi nucleari sono state impiegate in un conflitto bellico contro popolazioni civili ed inermi, sterminando intere generazioni e annichilendo intere città. E’ bene ricordare che la paternità storica di tali massacri (veri e propri crimini commessi contro l’umanità, come qualcuno li ha definiti, crimini rimasti tuttavia impuniti) va indubbiamente ascritta agli Stati Uniti d’America, che non hanno esitato ad usare armi di distruzione di massa per vincere la guerra. In modo particolare, occorre riflettere sulla seconda bomba atomica, sganciata su Nagasaki. Secondo molti storici si è trattato di un atto terroristico assolutamente inutile ed evitabile, eppure è stato ugualmente eseguito per due ragioni fondamentali. La prima, più che altro un vero e proprio alibi di natura tecnico-scientifica, era che la bomba lanciata su Nagasaki, essendo composta di plutonio, e non di uranio arricchito come quella gettata su Hiroshima, aveva bisogno di essere sperimentata (naturalmente, tale ragionamento è assolutamente cinico e spregiudicato). Il secondo motivo, in effetti prevalente, era di ordine strategico politico, nella misura in cui la seconda bomba era davvero inutile per vincere la guerra contro il Giappone, un Paese completamente affranto e stremato, ormai prostrato, ridotto alla mercè dei vincitori, per cui apparve subito evidente un diverso scopo della seconda esplosione nucleare, ossia un gesto scellerato compiuto in funzione palesemente antisovietica. In tal senso, le bombe su Hiroshima e Nagasaki, pur essendo le ultime della seconda guerra mondiale, furono considerate come le prime della “guerra fredda”. Insomma, si trattava di una scelta strategica e politica ben precisa, di un chiaro segnale intimidatorio, teso a far capire ai sovietici e al mondo intero chi erano i nuovi padroni della storia. Negli anni successivi al 1945 le armi atomiche furono adottate da tutte le principali potenze mondiali: l’Unione Sovietica l’ottenne nel 1949 (grazie soprattutto alla decisione di alcuni scienziati che avevano concorso alla realizzazione della bomba nucleare per il governo nordamericano, al fine di ristabilire un giusto equilibrio tra le parti avverse), la Gran Bretagna nel 1952, la Francia nel 1960, la Cina nel 1964. In questo periodo, relativo al secondo dopoguerra, segnato da una prima proliferazione degli armamenti atomici, si determinò un clima che fu definito di “guerra fredda”, nel quale i due blocchi politico-militari contrapposti (la NATO, tuttora esistente e che fa capo agli USA, e il Patto di Varsavia, che ruotava intorno all’Unione Sovietica) erano coscienti di annientarsi vicendevolmente con il solo impiego delle armi atomiche. Questa era la teoria della “distruzione mutua assicurata”, alla base del cosiddetto “equilibrio del terrore”, ossia della strategia della deterrenza nucleare che, in qualche occasione, riuscì a scongiurare il rischio di un conflitto termonucleare totale. Tale “equilibrio”, benché utile deterrente sul piano strategico, tuttavia non impedì un’enorme proliferazione degli arsenali atomici sia ad Ovest che ad Est. Al contrario, le armi nucleari divennero sempre più numerose, ma soprattutto più sofisticate e complesse, quindi più potenti, al punto che confrontate con quelle successive le bombe gettate su Hiroshima e Nagasaki apparivano come “giocattoli”. Gli arsenali atomici a disposizione dei due blocchi avversari (Est e Ovest: nemici più sulla carta, ma nella realtà complici rispetto alla spartizione economica e politica del globo terrestre) erano potenzialmente in grado di disintegrare il nostro pianeta, non una, ma decine di volte. Nel corso degli anni ‘80, il dialogo tra Reagan e Gorbaciov condusse alla stipulazione dei trattati START I e START II, che sancivano una graduale riduzione degli armamenti atomici posseduti dalle due superpotenze. In quegli anni, esattamente nel 1985, uscì un film intitolato “War games” (tradotto in italiano “Giochi di guerra”) che racconta la storia di un brillante ragazzo di Seattle che, giocando col suo computer, riesce ad inserirsi nella rete informatica della difesa nucleare statunitense, provocando (nella finzione cinematografica) il pericolo di un conflitto termonucleare totale, poi scongiurato. Cito questo film per evidenziare come in quegli anni la percezione dei rischi di un conflitto atomico che avrebbe potuto causare l’autodistruzione del genere umano, era molto maggiore di oggi. Eppure la situazione odierna è più pericolosa di quella appena descritta, che si riferisce al periodo della “guerra fredda”. Attualmente, gli Stati che dichiarano di possedere armi nucleari e fanno ufficialmente parte del cosiddetto “Club dell’atomo” sono esattamente otto: Stati Uniti d’America, Russia, Cina, Regno Unito, Francia, India, Pakistan e Israele. Ripeto: Israele. Invece, gli unici Paesi al mondo che hanno pubblicamente e intenzionalmente rinunciato a programmi di riarmo nucleare sono: il Sudafrica, probabilmente il Brasile, e alcune repubbliche dell’ex Unione Sovietica, ossia Ucraina, Bielorussia e Kazakistan. Inoltre, la possibilità, non solo teorica, che alcune armi atomiche come le cosiddette “bombe sporche” (che non costano come le armi atomiche vere e proprie e non esigono particolari competenze scientifiche, se non quelle, alquanto diffuse, che servono a costruire una bomba tradizionale) possano cadere nelle mani di gruppi terroristici al soldo dei servizi segreti militari delle varie potenze (USA ed Israele sono in cima alla lista per la loro spregiudicatezza) può forse offrire una vaga idea dell’elevata pericolosità dell’attuale situazione internazionale. Una situazione avvolta in quella che convenzionalmente – ed erroneamente – viene definita “la spirale guerra-terrorismo”, ossia una realtà caratterizzata da crescenti tensioni e contraddizioni, aggravate dalla politica della cosiddetta “guerra globale preventiva” made in USA che, di fatto, alimenta e rafforza ulteriormente le spinte e le tendenze oltranziste ed estremiste in ogni angolo della Terra. Per questo, non tanto di “spirale” si tratta, quanto di due volti mostruosi e gemellari partoriti dal medesimo apparato di distruzione ed oppressione: l’imperialismo statunitense. L’odierna situazione planetaria è dunque molto più insidiosa del passato, soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino avvenuto nel 1989 e dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica e del suo “impero”, ma soprattutto dopo l’11 settembre 2001, quando sono state rilanciate la ricerca e la produzione di nuove generazioni di bombe nucleari più piccole e più facili da utilizzare. Nonostante ciò, la consapevolezza del pericolo rappresentato dagli arsenali atomici da parte dell’opinione pubblica mondiale, si trova ad un livello molto più basso rispetto agli anni della “guerra fredda”. L’epoca della “guerra fredda” è stata un periodo in cui l’equilibrio tra le due superpotenze (USA e URSS) esercitava un potentissimo effetto deterrente. Oggi quell’equilibrio non esiste più (è rimasto solo il “terrore”, scusate la battutaccia). Anzi, la situazione è profondamente squilibrata, estremamente instabile e caotica, e gli USA non sono in grado di gestirla da soli attraverso un ruolo di gendarmeria planetaria che si sono auto-assegnati con arroganza e che li ha condotti all’isolamento più totale. Oggi assistiamo ad un insidioso rilancio della ricerca nucleare per fini militari, che vede una responsabilità e un coinvolgimento crescenti anche del nostro Paese. Basti pensare che all’aeroporto militare di Ghedi (Brescia) e nella base americana di Aviano sono pronte all’uso almeno 90 testate nucleari. Per far capire l’estrema pericolosità derivante dall’odierno scenario internazionale, voglio rammentare alcuni episodi occorsi nel 2002, quando India e Pakistan (che già nel 1998 avevano condotto alcuni test nucleari) si trovarono sull’orlo di un conflitto per il controllo del Kashmir (una terra situata al confine tra i due Stati, famosa per un tessuto morbido e leggero di lana omonima, ricavata da una particolare razza di capre che vive in quella regione), una pericolosa contesa che avrebbe potuto condurre ad un drammatico scontro militare e al successivo ricorso ad armi nucleari. Oggi esistono alcune micro potenze regionali, quali la stessa Israele, che detengono arsenali atomici micidiali ed assumono atteggiamenti ostili e belligeranti verso gli Stati confinanti. E nessuno osa denunciare tale situazione, anzi chi si azzarda in tal senso viene tacciato di “antisemitismo”. Naturalmente sarebbe ipocrita non riconoscere che la più grave minaccia proviene da quelle superpotenze mondiali come gli USA, la Cina e la Russia, che mirano ad una nuova spartizione geopolitica ed economica del mondo e che agiscono in modo aggressivo ed espansionistico sul terreno prettamente commerciale, entrando spesso in contrasto tra loro. Si pensi alla competizione commerciale tra USA, Giappone, Europa e Cina, o alla guerra monetaria tra euro e dollaro. Certo, dal 1945 ad oggi tutte le guerre finora combattute e anche quelle tuttora in corso (si pensi allo stato di guerriglia permanente in Iraq) non hanno mai registrato il ricorso ad armi atomiche, bensì solo a quelle convenzionali. Addirittura, in alcuni conflitti etnici “tribali” sono stati perpetrati veri genocidi usando armi rozze e primitive: ad esempio, in alcuni Stati africani, come il Ruanda, sono stati commessi massacri (contro l’etnia Tutsi) a colpi di machete, un pesante coltello dalla lama lunga e affilata. Finora ho fornito una ricostruzione storica il più possibile fedele e lineare, in materia di armamenti nucleari, provando ad evidenziare un confronto tra passato e presente, tra gli anni della “guerra fredda” e la realtà odierna che, come ho già spiegato, appare assai più insidiosa, benché la coscienza della gente comune sia indubbiamente molto meno diffusa e profonda rispetto al passato. A tale proposito voglio citare un brano tratto da un articolo di Giorgio Bocca (apparso alcuni anni or sono nella rubrica “L’antitaliano”), nel quale l’anziano giornalista scrive testualmente: “Già nel 1945 avremmo dovuto capire che l’apocalisse era ormai entrata nella normalità. Scoppia la prima atomica a Hiroshima e sui giornali dell’Occidente, anche sui nostri, la notizia venne data a una colonna in basso e non destò particolare emozione. Aveva ucciso in un colpo 100 mila persone e ne aveva avvelenate a morte altrettante. Non se ne sapeva molto, è vero, ma in breve si capì che era l’arma della distruzione totale, ma l’Occidente civile in sostanza non fece obiezione: la bomba segnava in pratica la fine della guerra, perché condannarla?”. In altri termini, il fine (la conclusione della seconda guerra mondiale) ha giustificato il mezzo, ovvero il ricorso alla bomba H, un terrificante strumento di distruzione totale. Oggi, più che nel passato, questa perversa logica machiavellica del “fine che giustifica i mezzi” non può e non deve più essere tollerata, ma va respinta con fermezza e abbandonata in modo definitivo, pena l’auto-annientamento dell’umanità e la dissoluzione di quasi ogni forma di vita presente sul nostro pianeta. Le cause delle guerre, siano esse convenzionali o meno, sono fondamentalmente le stesse: il possesso e il controllo della terra, dell’acqua, del petrolio o di altre preziose materie prime, lo sfruttamento dell’uomo e della natura, l’oppressione di un popolo da parte di un altro popolo, ovvero di una classe sociale da parte di un’altra classe, eccetera. Queste sono le ragioni primarie che possono scatenare un conflitto bellico. Il fatto poi che alla guerra condotta con armi convenzionali si sostituisca la guerra “termonucleare”, non cambia e non toglie assolutamente nulla alle cause, al carattere e al significato di classe della guerra medesima. Tuttavia, la differenza più evidente ed innegabile tra guerre tradizionali e guerra nucleare, sta nel fatto che le armi atomiche sono strumenti di DISTRUZIONE TOTALE: un “dettaglio” che non è certamente trascurabile, per cui non va minimamente sottovalutato. Dunque, voglio concludere con un appello che, per quanto possa apparire ingenuo, banale ed utopistico, esprime un’istanza molto diffusa tra la gente comune, implica un presupposto di estrema e vitale importanza, contiene una proposta assolutamente necessaria e indispensabile alla salvezza del genere umano e delle altre specie viventi sulla Terra: BANDIAMO LE ARMI NUCLEARI, BANDIAMO TUTTE LE ARMI, BANDIAMO LA GUERRA E L’IMPERIALISMO DALLA NOSTRA ESISTENZA!

Lucio Garofalo

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In base alle stime ufficiali, fornite dall’Inail, il triste bilancio delle vittime sul lavoro in Italia nel 2008 si è fermato per la prima volta sotto la soglia dei 1200. Un dato apparentemente confortante, che viene vantato dal governo come se fosse un successo. Comunque, l’anno scorso il numero dei morti sul lavoro è sceso a 1.120, cioè al livello più basso dal lontano 1951. Nel Rapporto 2008, l’Inail segnala 874.940 incidenti sul lavoro e 1.120 infortuni mortali, la metà dei quali si è verificata sulle strade. Quindi, nel 2008 i morti sul lavoro sono calati del 7,2 per cento. In realtà, in questo calcolo percentuale, già di per sé inquietante, affiora un ulteriore motivo di preoccupazione: i lavoratori stranieri che si sono infortunati sul lavoro, essendo notevolmente più esposti al rischio infortunistico, sono aumentati del 2 per cento. Dunque, si riducono gli infortuni per i lavoratori in generale, ma tendono a risalire per i lavoratori stranieri. Inoltre, nonostante la lieve flessione registrata nel 2008, tuttavia il nostro Paese continua ad accusare un numero di morti sul lavoro più elevato rispetto alle altre nazioni europee in termini sia assoluti che relativi. E questo solo per attenerci alle cifre ufficiali. Infatti, non dimentichiamo che l’Italia è il paese del lavoro nero, del record di evasione fiscale, dell’economia sommersa, della mafia e dell’illegalità diffusa.

A proposito di decessi sul lavoro non sarebbe fuori luogo sollecitare un’opportuna riflessione, ossia un’operazione di aggiornamento linguistico. Anziché parlare di “morti bianche” (un’espressione che designava le morti in culla, ovvero le morti prive di colpa, che implicano un richiamo al destino, al fato, un riferimento più o meno esplicito a circostanze casuali e a tragiche fatalità) è senza dubbio più corretto e appropriato usare la definizione di “omicidi bianchi”, dal momento che le responsabilità esistono sempre e sono sempre individuabili e perseguibili, almeno dovrebbero esserlo. Così come sono sempre individuabili ed eliminabili i motivi che sono all’origine di quelle morti.

Dunque, in Italia le stragi sul lavoro costituiscono una vera e propria emergenza, malgrado ci si ostini a sottovalutarne l’effettiva portata e la drammaticità, sebbene le priorità nell’agenda del governo siano altre, come pure quelle dell’opposizione, nonostante vengano artatamente falsificate le statistiche a scopo di mera propaganda, benché i mass-media ufficiali continuino ad omettere i dati reali di un bollettino quotidiano che assomiglia sempre più ad un bollettino di guerra. Infatti, dall’inizio del corrente anno il macabro bilancio degli omicidi bianchi ha raggiunto quota 500. La media quotidiana di 3/4 vittime provocate dallo sfruttamento capitalistico, segnala l’idea della “severità” delle norme vigenti e dell’“inflessibilità” della loro applicazione e dei controlli ispettivi. Se non si fosse capito, stavo facendo dell’ironia. Intanto, gli operai continuano a crepare nelle fabbriche, nelle officine, nei cantieri edili, negli ambienti di lavoro,  nei luoghi (malsani e insicuri) dello sfruttamento economico, mentre nessun governo, nessun partito, nessun sindacato può assolutamente intervenire, ammettendo la propria impotenza e dichiarando il proprio fallimento.

A questo punto apro una breve parentesi per ricordare un celebre film d’autore del 1971, “La classe operaia va in paradiso”. Si tratta di uno straordinario capolavoro del cinema militante e politicamente impegnato, diretto dal regista Elio Petri ed interpretato dall’indimenticabile Gian Maria Volonté, nei panni dell’operaio milanese Lulù Massa. Il quale si presenta inizialmente come un fenomenale campione del cottimo, un vero stakanovista della catena di montaggio, ma improvvisamente subisce un incidente che gli procura la netta amputazione di un dito. Sarà in seguito a questo infortunio sul lavoro che l’operaio Massa ritroverà la sua coscienza di classe, acquisendo la consapevolezza della sua condizione di proletario sfruttato ed inizia a lottare con rabbia e determinazione contro il sistema alienante ed oppressivo della fabbrica.

Ebbene, negli ultimi mesi, sia all’estero (soprattutto in Francia) che in Italia, gli effetti destabilizzanti della recessione economica internazionale hanno spinto molti operai, esposti all’incombente minaccia dei licenziamenti, a ribellarsi e ad intraprendere forme estreme di protesta, prima impensabili e sconosciute. C’è l’operaio che tenta drammaticamente il suicidio perché non riesce più ad arrivare alla fine del mese, se non proprio alla metà del mese, ma ci sono anche numerosi casi di lavoratori che scelgono di resistere e lottano strenuamente contro i licenziamenti, contro la disoccupazione e contro la crisi, che i padroni tentano di far pagare alla classe operaia, come sempre.

Detto ciò, espongo in breve un ragionamento di ordine personale, quasi intimistico. Io faccio l’insegnante, per cui appartengo economicamente e socialmente alla piccola borghesia cosiddetta “intellettuale” (si fa per dire). Ora, sebbene io non sia un operaio (lo sono stato, avendo lavorato per qualche mese in alcune industrie prima di entrare nella scuola, per cui ho sperimentato di persona gli effetti dello sfruttamento materiale e del sistema alienante e repressivo imposto in fabbrica), tuttavia mi considero una sorta di “proletario” del sistema aziendale dell’istruzione, un bene immateriale ridotto a merce. Da svendere e consumare, ossia alienare e mortificare.

In ogni caso, anche se fossi stato un impiegato di banca, un medico, un avvocato o un altro professionista, avrei sicuramente espresso la mia solidarietà morale e politica verso le iniziative di lotta e resistenza intraprese negli ultimi tempi da gruppi di operai ribelli, perciò perseguitati, in molte fabbriche, soprattutto del gruppo Fiat. Si pensi ad esempio agli operai in lotta a Pomigliano D’Arco, ai lavoratori licenziati dalla Fiat Sata di Melfi, ai lavoratori che si sono autonomamente organizzati e per questo sono sottoposti all’ennesimo tentativo di criminalizzazione e a un duro attacco repressivo  portato dal sistema mafioso della Fiat e dallo Stato italiano suo complice da sempre. Io ho sempre manifestato la mia simpatia e vicinanza ideologica nei confronti delle lotte condotte dalla classe operaia in ogni tempo e ogni angolo del pianeta. Da sincero e convinto operaista, ribadisco la mia piena solidarietà morale e politica nei riguardi degli operai vittime sul lavoro, vittime dell’ennesimo inganno, dell’ennesima menzogna e dell’ennesima mistificazione perpetrata da governo e sindacati.

Lucio Garofalo

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