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Deficit di democrazia nel Comune di Lioni

Partiamo da un paio di semplici domande, che forse potrebbero risultare scomode e imbarazzanti per chi è collocato nelle alte sfere del potere politico locale. Da quanto tempo non viene convocata la popolazione per un avviare un confronto serio, civile e sereno con la Giunta che amministra il paese? Quali strumenti di controllo e quali canali di partecipazione politica diretta sono concessi ai cittadini? A Lioni sono ancora possibili e praticabili forme di gestione partecipativa e momenti di democrazia assembleare?

“Il mondo è piccolo … Sì, ma anche molto cattivo”, è una celebre battuta tratta dal film “Per qualche dollaro in più”, un capolavoro del genere cinematografico spaghetti-western, inventato dal compianto regista Sergio Leone, figlio di uno dei pionieri del cinema muto italiano, quel Vincenzo Leone nato nella vicina Torella dei Lombardi.

Ho citato la frase pronunciata da Wild, il gobbo interpretato da Klaus Kinski, per sostenere che se esiste un deficit di democrazia e di libertà partecipativa sul piano politico nazionale, la realtà locale non appare certo più confortante, anzi. Ormai è un dato di un’evidenza oggettiva ed innegabile: anche a Lioni non si può fare a meno di “rassegnarsi” all’assenza di un’autentica e credibile forza di opposizione e di alternativa al sistema di potere imposto in una piazza che si richiama storicamente alla “sinistra”.

Mi sovviene tale riflessione poiché in questi giorni notavo (non per la prima volta) che la scena politica locale non riserva più sorprese, dando l’impressione che tutto sia già deciso o comunque che tutto taccia. In ogni caso, sia che tutto sia già prestabilito dall’alto, sia che tutto taccia, la conclusione più banale e scontata da trarre è che non esiste più alcuna possibilità di dibattito e di confronto, di critica e di opposizione, sia all’interno delle istituzioni amministrative locali, sia all’esterno, cioè negli spazi sociali.

Di fronte ad un simile contesto di apatia e di omertà sociale, ma soprattutto politica, non si può far finta di nulla e ostentare indifferenza, a meno che non si abbia interesse a mantenere lo stato di cose esistenti o si voglia scongiurare il rischio di inimicarsi un’intera compagine amministrativa, compresi lacchè, cortigiani e giullari, presenti in gran copia nella popolazione, che evidentemente merita la Giunta comunale che ha.

Ammetto spontaneamente (anticipando e prevedendo eventuali obiezioni in tal senso) di non partecipare in modo diretto alle vicende politiche del mio paese da diverso tempo, seppure sia sempre pronto ad informarmi ed interessarmi, almeno teoricamente, per cui sarebbe fin troppo facile e scontato rimproverare al sottoscritto un certo grado di “assenteismo” e “disinteresse”, ma questa non sarebbe un’obiezione valida e corretta, seria e intelligente. Al contrario, si rivelerebbe un’accusa tanto ovvia quanto inefficace.

Sarà probabilmente dovuto anche all’età che avanza (perché il tempo avanza inesorabilmente per tutti, senza alcuna eccezione), oppure alle amare e cocenti delusioni provate in seguito ad esperienze negative di militanza attiva e di impegno politico svolto in prima persona. Sta di fatto che il sottoscritto si è da tempo congedato dalla politica concreta, ma non ha mai smesso di occuparsene in termini astratti.

Ho aperto una breve parentesi per chiarire le cose e sgombrare il terreno da ogni possibile equivoco e da ogni obiezione che rischierebbe di inficiare il senso del ragionamento, che tenta di abbracciare altre questioni e approdare ad altre conclusioni.

Rammento uno slogan caro ad un’intera generazione di giovani lionesi, a cui ricordo di appartenere, una frase molto usata nelle trasmissioni della mitica Radio Popolare Lioni: “RPL: l’unico punto rosso dell’Alta Irpinia”. Oggi quel “punto rosso” costituisce un inquietante allarme rosso, il segnale di una pericolosa deriva autoritaria della politica e della democrazia, così come vengono concepite e praticate anche nelle nostre zone.

In particolare, nel Comune di Lioni manca ormai da anni una vera opposizione, sia a livello istituzionale che sociale, per cui si riscontra un innegabile deficit di democrazia, un vuoto di trasparenza e vigilanza sociale che rischia di consentire ogni arbitrio ed ogni abuso da parte chi detiene il potere decisionale nella Pubblica Amministrazione.

Pertanto, intendo rivolgere un appello alle giovani generazioni, nella fattispecie lionesi, ricordando che in passato altri giovani come loro hanno lottato per non sopportare l’umiliazione del giogo clientelare, per non piegarsi e soggiacere ad una logica ricattatoria secondo cui sarebbe inevitabile sottostare ai voleri e alle richieste di voto provenienti dal candidato di turno, al fine di ottenere in cambio un favore, un posto di lavoro o il soddisfacimento di qualsiasi altro bisogno. Favori promessi ed elargiti in base a metodi borbonici, tuttora applicati per mantenere sotto controllo le popolazioni.

E’ altresì vero che in passato molti giovani hanno reagito, pagando caro l’ardire e l’ardore della ribellione. Tuttavia, le esperienze trascorse, benché negative, non devono avvilire o demoralizzare i giovani di oggi. Cito le parole di un valoroso combattente del popolo, Ernesto “Che” Guevara: “Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso”.

Esorto le giovani generazioni a ridestarsi dal pigro torpore in cui si lasciano sprofondare, ad attivarsi collettivamente per provare a mutare lo stato di cose presenti, per combattere un sistema politico affaristico che non giova a nessuno, ma fa comodo solo a coloro che lucrano e che reggono i fili del potere, esercitando una volontà di comando.

Si può discutere se tale logica clientelare, ricattatoria e spartitoria sia stata accettata o meno da tutti, ma è fuor di dubbio che l’abbia dovuta sposare soprattutto chi, nelle nostre zone, mira alla conquista di una porzione di potere e ricchezza, chi è più cinico ed arrivista, astuto e competitivo, chi coltiva, più o meno apertamente, l’aspirazione ad intraprendere un’ambiziosa (probabilmente presuntuosa e velleitaria) carriera politica.

Sia chiaro che in questo ragionamento il signor Ciriaco De Mita da Nusco c’entra e non c’entra nel senso che, malgrado l’assenza e la “metamorfosi” dell’Uomo del Monte dopo la clamorosa rottura con Veltroni e i vertici nazionali del PD, tuttavia i rapporti, le vicende e le dinamiche politiche che si svolgono all’interno di quella “strana creatura politica” che è il Partito Democratico, non mostrano segni di ripresa e di cambiamento.

Ebbene, il Partito Democratico rappresenta oggi, a Lioni come altrove in Irpinia, il fulcro centrale di un sistema di potere affaristico e clientelare che un tempo faceva capo al signorotto di Nusco. Il quale, dal canto suo, non si è ancora rassegnato a farsi da parte, dare le dimissioni e godersi la pensione, ma continua ad affilare gli artigli in vista delle prossime dispute elettorali, a partire dalle elezioni regionali che si svolgeranno nel 2010.

In conclusione, vanno bene le feste di piazza e le manifestazioni estive, i concerti musicali e le esibizioni canore, le attività artistiche e creative, le gare sportive, le iniziative nel settore del volontariato e dell’associazionismo sociale, ecc. Ma per cambiare il proprio destino e quello degli altri, per incidere nella storia della propria comunità serve ben altro, molto più di un circolo culturale, perché è necessario sapersi organizzare politicamente, occorre riuscire ad elaborare una visione progettuale che sia credibile e convincente, capace di mobilitare ed orientare la gente, perché  la teoria diventa una forza materiale non appena si impadronisce delle masse”. (Karl Marx)

Lucio Garofalo

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Hiroshima e Nagasaki

In queste giornate afose di un’estate che ormai volge al termine, rischiano di cadere in un silenzio assordante due date che rievocano un’immane tragedia per l’intera umanità. Mi riferisco al 6 e 9 agosto del 1945, quando gli americani lanciarono le prime bombe atomiche della storia a scapito delle città di Hiroshima e Nagasaki, che vennero completamente distrutte. Solo nei mesi immediatamente successivi alla deflagrazione i morti furono oltre 200mila. Secondo stime attendibili, fino ad oggi le vittime accertate sarebbero oltre 350mila, a causa soprattutto delle affezioni tumorali prodotte dalle radiazioni atomiche. Tranne sporadiche commemorazioni piuttosto rituali, celebrate in remote località della Terra, nella fattispecie in Giappone, purtroppo in Europa, e tantomeno in Italia, non sembrano minimamente tenute in conto le ricorrenze legate a quegli orribili avvenimenti. Al contrario, stanno passando senza far rumore. A riprova che esiste la ferma volontà di cancellare ed estinguere la memoria di tali esperienze. Quelle dell’agosto 1945 sono state le uniche volte in cui le armi nucleari sono state impiegate in un conflitto bellico contro popolazioni civili ed inermi, sterminando intere generazioni e annichilendo intere città. E’ bene ricordare che la paternità storica di tali massacri (veri e propri crimini commessi contro l’umanità, come qualcuno li ha definiti, crimini rimasti tuttavia impuniti) va indubbiamente ascritta agli Stati Uniti d’America, che non hanno esitato ad usare armi di distruzione di massa per vincere la guerra. In modo particolare, occorre riflettere sulla seconda bomba atomica, sganciata su Nagasaki. Secondo molti storici si è trattato di un atto terroristico assolutamente inutile ed evitabile, eppure è stato ugualmente eseguito per due ragioni fondamentali. La prima, più che altro un vero e proprio alibi di natura tecnico-scientifica, era che la bomba lanciata su Nagasaki, essendo composta di plutonio, e non di uranio arricchito come quella gettata su Hiroshima, aveva bisogno di essere sperimentata (naturalmente, tale ragionamento è assolutamente cinico e spregiudicato). Il secondo motivo, in effetti prevalente, era di ordine strategico politico, nella misura in cui la seconda bomba era davvero inutile per vincere la guerra contro il Giappone, un Paese completamente affranto e stremato, ormai prostrato, ridotto alla mercè dei vincitori, per cui apparve subito evidente un diverso scopo della seconda esplosione nucleare, ossia un gesto scellerato compiuto in funzione palesemente antisovietica. In tal senso, le bombe su Hiroshima e Nagasaki, pur essendo le ultime della seconda guerra mondiale, furono considerate come le prime della “guerra fredda”. Insomma, si trattava di una scelta strategica e politica ben precisa, di un chiaro segnale intimidatorio, teso a far capire ai sovietici e al mondo intero chi erano i nuovi padroni della storia. Negli anni successivi al 1945 le armi atomiche furono adottate da tutte le principali potenze mondiali: l’Unione Sovietica l’ottenne nel 1949 (grazie soprattutto alla decisione di alcuni scienziati che avevano concorso alla realizzazione della bomba nucleare per il governo nordamericano, al fine di ristabilire un giusto equilibrio tra le parti avverse), la Gran Bretagna nel 1952, la Francia nel 1960, la Cina nel 1964. In questo periodo, relativo al secondo dopoguerra, segnato da una prima proliferazione degli armamenti atomici, si determinò un clima che fu definito di “guerra fredda”, nel quale i due blocchi politico-militari contrapposti (la NATO, tuttora esistente e che fa capo agli USA, e il Patto di Varsavia, che ruotava intorno all’Unione Sovietica) erano coscienti di annientarsi vicendevolmente con il solo impiego delle armi atomiche. Questa era la teoria della “distruzione mutua assicurata”, alla base del cosiddetto “equilibrio del terrore”, ossia della strategia della deterrenza nucleare che, in qualche occasione, riuscì a scongiurare il rischio di un conflitto termonucleare totale. Tale “equilibrio”, benché utile deterrente sul piano strategico, tuttavia non impedì un’enorme proliferazione degli arsenali atomici sia ad Ovest che ad Est. Al contrario, le armi nucleari divennero sempre più numerose, ma soprattutto più sofisticate e complesse, quindi più potenti, al punto che confrontate con quelle successive le bombe gettate su Hiroshima e Nagasaki apparivano come “giocattoli”. Gli arsenali atomici a disposizione dei due blocchi avversari (Est e Ovest: nemici più sulla carta, ma nella realtà complici rispetto alla spartizione economica e politica del globo terrestre) erano potenzialmente in grado di disintegrare il nostro pianeta, non una, ma decine di volte. Nel corso degli anni ‘80, il dialogo tra Reagan e Gorbaciov condusse alla stipulazione dei trattati START I e START II, che sancivano una graduale riduzione degli armamenti atomici posseduti dalle due superpotenze. In quegli anni, esattamente nel 1985, uscì un film intitolato “War games” (tradotto in italiano “Giochi di guerra”) che racconta la storia di un brillante ragazzo di Seattle che, giocando col suo computer, riesce ad inserirsi nella rete informatica della difesa nucleare statunitense, provocando (nella finzione cinematografica) il pericolo di un conflitto termonucleare totale, poi scongiurato. Cito questo film per evidenziare come in quegli anni la percezione dei rischi di un conflitto atomico che avrebbe potuto causare l’autodistruzione del genere umano, era molto maggiore di oggi. Eppure la situazione odierna è più pericolosa di quella appena descritta, che si riferisce al periodo della “guerra fredda”. Attualmente, gli Stati che dichiarano di possedere armi nucleari e fanno ufficialmente parte del cosiddetto “Club dell’atomo” sono esattamente otto: Stati Uniti d’America, Russia, Cina, Regno Unito, Francia, India, Pakistan e Israele. Ripeto: Israele. Invece, gli unici Paesi al mondo che hanno pubblicamente e intenzionalmente rinunciato a programmi di riarmo nucleare sono: il Sudafrica, probabilmente il Brasile, e alcune repubbliche dell’ex Unione Sovietica, ossia Ucraina, Bielorussia e Kazakistan. Inoltre, la possibilità, non solo teorica, che alcune armi atomiche come le cosiddette “bombe sporche” (che non costano come le armi atomiche vere e proprie e non esigono particolari competenze scientifiche, se non quelle, alquanto diffuse, che servono a costruire una bomba tradizionale) possano cadere nelle mani di gruppi terroristici al soldo dei servizi segreti militari delle varie potenze (USA ed Israele sono in cima alla lista per la loro spregiudicatezza) può forse offrire una vaga idea dell’elevata pericolosità dell’attuale situazione internazionale. Una situazione avvolta in quella che convenzionalmente – ed erroneamente – viene definita “la spirale guerra-terrorismo”, ossia una realtà caratterizzata da crescenti tensioni e contraddizioni, aggravate dalla politica della cosiddetta “guerra globale preventiva” made in USA che, di fatto, alimenta e rafforza ulteriormente le spinte e le tendenze oltranziste ed estremiste in ogni angolo della Terra. Per questo, non tanto di “spirale” si tratta, quanto di due volti mostruosi e gemellari partoriti dal medesimo apparato di distruzione ed oppressione: l’imperialismo statunitense. L’odierna situazione planetaria è dunque molto più insidiosa del passato, soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino avvenuto nel 1989 e dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica e del suo “impero”, ma soprattutto dopo l’11 settembre 2001, quando sono state rilanciate la ricerca e la produzione di nuove generazioni di bombe nucleari più piccole e più facili da utilizzare. Nonostante ciò, la consapevolezza del pericolo rappresentato dagli arsenali atomici da parte dell’opinione pubblica mondiale, si trova ad un livello molto più basso rispetto agli anni della “guerra fredda”. L’epoca della “guerra fredda” è stata un periodo in cui l’equilibrio tra le due superpotenze (USA e URSS) esercitava un potentissimo effetto deterrente. Oggi quell’equilibrio non esiste più (è rimasto solo il “terrore”, scusate la battutaccia). Anzi, la situazione è profondamente squilibrata, estremamente instabile e caotica, e gli USA non sono in grado di gestirla da soli attraverso un ruolo di gendarmeria planetaria che si sono auto-assegnati con arroganza e che li ha condotti all’isolamento più totale. Oggi assistiamo ad un insidioso rilancio della ricerca nucleare per fini militari, che vede una responsabilità e un coinvolgimento crescenti anche del nostro Paese. Basti pensare che all’aeroporto militare di Ghedi (Brescia) e nella base americana di Aviano sono pronte all’uso almeno 90 testate nucleari. Per far capire l’estrema pericolosità derivante dall’odierno scenario internazionale, voglio rammentare alcuni episodi occorsi nel 2002, quando India e Pakistan (che già nel 1998 avevano condotto alcuni test nucleari) si trovarono sull’orlo di un conflitto per il controllo del Kashmir (una terra situata al confine tra i due Stati, famosa per un tessuto morbido e leggero di lana omonima, ricavata da una particolare razza di capre che vive in quella regione), una pericolosa contesa che avrebbe potuto condurre ad un drammatico scontro militare e al successivo ricorso ad armi nucleari. Oggi esistono alcune micro potenze regionali, quali la stessa Israele, che detengono arsenali atomici micidiali ed assumono atteggiamenti ostili e belligeranti verso gli Stati confinanti. E nessuno osa denunciare tale situazione, anzi chi si azzarda in tal senso viene tacciato di “antisemitismo”. Naturalmente sarebbe ipocrita non riconoscere che la più grave minaccia proviene da quelle superpotenze mondiali come gli USA, la Cina e la Russia, che mirano ad una nuova spartizione geopolitica ed economica del mondo e che agiscono in modo aggressivo ed espansionistico sul terreno prettamente commerciale, entrando spesso in contrasto tra loro. Si pensi alla competizione commerciale tra USA, Giappone, Europa e Cina, o alla guerra monetaria tra euro e dollaro. Certo, dal 1945 ad oggi tutte le guerre finora combattute e anche quelle tuttora in corso (si pensi allo stato di guerriglia permanente in Iraq) non hanno mai registrato il ricorso ad armi atomiche, bensì solo a quelle convenzionali. Addirittura, in alcuni conflitti etnici “tribali” sono stati perpetrati veri genocidi usando armi rozze e primitive: ad esempio, in alcuni Stati africani, come il Ruanda, sono stati commessi massacri (contro l’etnia Tutsi) a colpi di machete, un pesante coltello dalla lama lunga e affilata. Finora ho fornito una ricostruzione storica il più possibile fedele e lineare, in materia di armamenti nucleari, provando ad evidenziare un confronto tra passato e presente, tra gli anni della “guerra fredda” e la realtà odierna che, come ho già spiegato, appare assai più insidiosa, benché la coscienza della gente comune sia indubbiamente molto meno diffusa e profonda rispetto al passato. A tale proposito voglio citare un brano tratto da un articolo di Giorgio Bocca (apparso alcuni anni or sono nella rubrica “L’antitaliano”), nel quale l’anziano giornalista scrive testualmente: “Già nel 1945 avremmo dovuto capire che l’apocalisse era ormai entrata nella normalità. Scoppia la prima atomica a Hiroshima e sui giornali dell’Occidente, anche sui nostri, la notizia venne data a una colonna in basso e non destò particolare emozione. Aveva ucciso in un colpo 100 mila persone e ne aveva avvelenate a morte altrettante. Non se ne sapeva molto, è vero, ma in breve si capì che era l’arma della distruzione totale, ma l’Occidente civile in sostanza non fece obiezione: la bomba segnava in pratica la fine della guerra, perché condannarla?”. In altri termini, il fine (la conclusione della seconda guerra mondiale) ha giustificato il mezzo, ovvero il ricorso alla bomba H, un terrificante strumento di distruzione totale. Oggi, più che nel passato, questa perversa logica machiavellica del “fine che giustifica i mezzi” non può e non deve più essere tollerata, ma va respinta con fermezza e abbandonata in modo definitivo, pena l’auto-annientamento dell’umanità e la dissoluzione di quasi ogni forma di vita presente sul nostro pianeta. Le cause delle guerre, siano esse convenzionali o meno, sono fondamentalmente le stesse: il possesso e il controllo della terra, dell’acqua, del petrolio o di altre preziose materie prime, lo sfruttamento dell’uomo e della natura, l’oppressione di un popolo da parte di un altro popolo, ovvero di una classe sociale da parte di un’altra classe, eccetera. Queste sono le ragioni primarie che possono scatenare un conflitto bellico. Il fatto poi che alla guerra condotta con armi convenzionali si sostituisca la guerra “termonucleare”, non cambia e non toglie assolutamente nulla alle cause, al carattere e al significato di classe della guerra medesima. Tuttavia, la differenza più evidente ed innegabile tra guerre tradizionali e guerra nucleare, sta nel fatto che le armi atomiche sono strumenti di DISTRUZIONE TOTALE: un “dettaglio” che non è certamente trascurabile, per cui non va minimamente sottovalutato. Dunque, voglio concludere con un appello che, per quanto possa apparire ingenuo, banale ed utopistico, esprime un’istanza molto diffusa tra la gente comune, implica un presupposto di estrema e vitale importanza, contiene una proposta assolutamente necessaria e indispensabile alla salvezza del genere umano e delle altre specie viventi sulla Terra: BANDIAMO LE ARMI NUCLEARI, BANDIAMO TUTTE LE ARMI, BANDIAMO LA GUERRA E L’IMPERIALISMO DALLA NOSTRA ESISTENZA!

Lucio Garofalo

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IL RAZZISMO STRISCIANTE
 
Negli ultimi mesi, in seguito al ritorno della cosiddetta “emergenza” (ormai permanente) dei rifiuti, nell’immaginario collettivo si è determinata una sorta di “maledizione”, si è sviluppata una rappresentazione negativa che ha contribuito ad infamare e bollare il popolo partenopeo agli occhi dell’opinione pubblica nazionale ed internazionale come una plebe corrotta e malvagia: “brutti, sporchi e cattivi”. Tanto per citare un esempio banale, in alcuni articoli apparsi su vari giornali e blog presenti su Internet, ho avuto modo di intercettare una forma di astio e di razzismo latente contro i Napoletani, un sentimento di biasimo e disprezzo che serpeggia anche in ambienti considerati “colti”. Addirittura sembra aver preso piede un’assurda e deprecabile forma di autorazzismo dei meridionali verso le popolazioni campane e di una parte dei cittadini campani verso i Napoletani. Una situazione inquietante e controversa, che potrebbe provocare una pericolosa deriva che sarebbe opportuno prevenire e scongiurare in tempo, per evitare che degeneri completamente.
Personalmente, vorrei invitare ad usare una maggiore cautela prima di esprimere giudizi eccessivamente avventati e perentori che potrebbero scivolare facilmente nel razzismo più becero e sinistro. Nella fattispecie particolare mi riferisco ad una sorta di spirale autorazzista che potrebbe generare implicazioni perverse e conflittuali, difficili da gestire in modo razionale.
Non si può stigmatizzare e screditare, o addirittura detestare e maledire un intero popolo per quelli che sono le sue consuetudini e le sue caratteristiche  di tipo storico e antropologico-culturale. A tale proposito esorterei a leggere gli studi di antropologia culturale di Claude Lévi-Strauss. Da cui bisognerebbe imparare un approccio possibilmente storico-relativistico rispetto agli usi e costumi di popoli distanti ed estranei rispetto al nostro modo di vivere e di pensare, senza scadere in facili ed ignobili pregiudizi moralistici, derivanti da una presunta superiorità etico-spirituale, intellettuale, o addirittura etnica e “razziale”, della cosiddetta civiltà occidentale.
Non si può condannare e criminalizzare moralmente una popolazione ritenuta “primitiva” se questa pratica, ad esempio, riti pagani, sacrifici umani o il cannibalismo, per quanto tali comportamenti possano risultare abominevoli e ripugnanti ai nostri occhi. Così come non si può demonizzare e perseguitare il popolo Rom per le sue ataviche tendenze e disposizioni all’elemosina o al furto. Malgrado tali attitudini ci appaiano profondamente riprovevoli e detestabili, o addirittura perseguibili penalmente.
I nostri codici di valutazione e di comportamento, etico, civile e penale, non coincidono necessariamente con gli schemi e i parametri valoriali assunti da altri popoli ed altre culture. Ciò che per noi può rappresentare un “peccato” o una colpa esecrabile, o addirittura un reato da punire severamente, per altri popoli può essere un atto normale e naturale.
Se noi vogliamo considerarci e proclamarci “civili”, “progrediti” e “tolleranti”, dobbiamo dimostrarlo non a chiacchiere, ma nella sostanza degli atteggiamenti e dei gesti concreti, ponendoci anzitutto in modo corretto di fronte alle differenze antropologico-culturali.
Le usanze e le tradizioni culturali, morali e sociali di un popolo sono difficili da modificare. I processi di mutamento innescati sul terreno antropologico-culturale possono essere lenti, difficili e complessi, ed esigono tempi di svolgimento estremamente lunghi.
Tuttavia, mi risulta che le popolazioni napoletane, specialmente le giovani generazioni, stanno provando a cambiare radicalmente le insane abitudini “plebee” di cui sono tacciate. Durante l’ultima puntata di “Anno Zero”, trasmessa lo scorso 5 giugno, ho ascoltato la preziosa testimonianza di un ragazzo di Chiaiano che spiegava come gruppi di giovani napoletani si fossero autonomamente organizzati per effettuare la raccolta differenziata, ma sono impossibilitati ad attuare le loro buone intenzioni in quanto gli amministratori locali hanno “le mani legate”, così come hanno ammesso gli stessi amministratori. Quali considerazioni si possono trarre da questa situazione?
E’ ormai evidente che si è imposta una volontà politica di matrice filo-camorrista, rivolta in una determinata direzione, tesa a privilegiare e tutelare non il bene comune delle popolazioni locali, bensì gli interessi economici privati delle cosche criminali, fiancheggiate da comitati affaristici conniventi e da alcuni esponenti del potere politico-istituzionale ed economico-imprenditoriale.
E’ ormai palese che tale “emergenza”, che perdura ormai da oltre un decennio, è quanto meno strana e discutibile, direi che si tratta di un’emergenza innescata e pilotata da alcuni centri di potere di origine occulta e senza dubbio criminale, molto probabilmente collusi con alcuni rappresentanti delle istituzioni locali, regionali e nazionali, ma anche (perché escluderlo) internazionali.
Infatti, le autorità locali sembrano avere proprio le “mani legate” quando si accingono ad applicare soluzioni (inclini ad esempio alla realizzazione di alte percentuali di raccolta differenziata) che non sono gradite al sistema camorrista, in quanto poco funzionali agli scopi dei clan e di altri gruppi affaristici più o meno legalizzati. A cui invece conviene che si adottino altre risposte quali (appunto) le discariche e gli inceneritori, che evidentemente consentono di lucrare e di ottenere ingenti profitti economici. Ed è esattamente la linea politica che si sta cercando di imporre a scapito delle popolazioni campane. Sia con le buone che con le cattive.
 
Lucio Garofalo

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Notizie dall’Irpinia – Un appello

Una tac per

la salute e il paesaggio

Non ci facciamo ingannare dalle sirene mediatiche. Sappiamo che quando si spegneranno i riflettori sul problema dei
rifiuti, non vorrà dire che il problema sarà stato risolto. Non possiamo in questo momento di militarizzazione immaginare
di bloccare le scelte governative, ma chiediamo al Governo e alle altre autorità competenti quanto segue.

1. Negli anni scorsi anche l’Irpinia è stata interessata allo smaltimento di varie sostanze tossiche. Chiediamo che venga
avviata immediatamente un ricognizione capillare del nostro paesaggio per individuare e rimuovere queste sostanze. In caso
contrario consideriamo le decisioni del governo gravemente lesive del nostro diritto alla salute proporremo l’astensione
dal pagamento della tassa sui rifiuti.

2. Chiediamo le dimissioni dei vertici delle due ASL irpine, dell’Arpac e dei Consorzi Rifiuti, in quanto non hanno svolto
adeguatamente le attività di controllo che avrebbero dovuto svolgere.

3. Se le discariche ben controllate non presentano rischi particolarmente gravi non è necessario allocarle in ambiti poco
urbanizzati e così distanti dai luoghi di raccolta.

4. Chiediamo che d’ora in avanti ci sia un controllo severissimo di tutte le fasi del ciclo dei rifiuti. Siamo indignati
per quanto è accaduto in tutti questi anni e per la mancata assunzione di responsabilità da parte di quanti hanno gestito
la materia.

5. La colpa dell’attuale situazione non è, come è stato scritto in questi giorni, di “preti e vescovi, giovani e donne e
pensionati e intellettuali e poeti e cantastorie”, ma di chi si ostina a rimanere al suo posto (Bassolino, in primo luogo)
umiliando in tal modo la democrazia, la civiltà e i cittadini onesti.

La prossima assemblea è fissata per MERCOLEDI’ 16 GENNAIO a CARPIGNANO.

Le prime adesioni:

franco arminio, angelo verderosa, antonio romano, michele fumagallo, alfonso nannariello, tonino la
penna, antonio morgante, lucio garofalo, enzo luongo, gaetano calabrese, michele ciasullo, luciana cerreta, dario bavaro,
giovanni vuotto, mariarosaria vaiano, franco archidiacono, giovanni maggino, enzo filomena, michele giammarino, angelo
cataldo


Tutte le firme sono su http://comunitaprovvisoria.wordpress.com

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La questione dei rifiuti non riguarda solo Napoli e la Campania, anzi. Il problema non è semplicemente locale o regionale, e nemmeno solo nazionale, ma è di portata globale. Esso investe la natura e la struttura stessa di un intero modo di produzione, eccessivamente energivoro e consumistico, un sistema economico imposto a livello planetario che, per produrre merci di consumo su scala industriale e soddisfare le richieste di un mercato di massa in costante crescita (basti pensare, ad esempio, al mercato cinese in fase di netta espansione), brucia e divora ogni giorno ingenti risorse energetiche, alimentari ed ambientali che non sono inesauribili, generando una quantità abnorme di rifiuti, scarti, ciarpame, ma anche scorie e sostanze altamente tossiche che l’ambiente stenta a smaltire.
Lo stesso processo di smaltimento dei rifiuti è diventato una vera e propria merce, un “business”, un affare d’oro che ha assunto proporzioni gigantesche, un’attività estremamente lucrosa e redditizia che consente l’accumulazione di colossali fortune economiche a vantaggio di organizzazioni economico-imprenditoriali di stampo criminale. Il problema mette dunque in luce tutti i limiti, i conflitti e le contraddizioni sociali e strutturali del sistema complessivo, ponendo seriamente in discussione la validità e la razionalità dell’attuale modello di sviluppo (e sottosviluppo) che possiamo definire tardo-capitalistico.
Le drammatiche vicende di questi giorni hanno fatto emergere dalle macerie sociali e dai cumuli di spazzatura, dove qualcuno intendeva tenerle sepolte, le gravissime responsabilità storico-politiche, locali e nazionali, che hanno condotto all’attuale situazione di esasperazione, rabbia e rivolta popolare. E’ necessario spiegare e far comprendere all’opinione pubblica le ragioni che hanno spinto (e spingeranno) la gente a ribellarsi. Occorre contrastare con fermezza gli squallidi tentativi mediatici di disinformazione e di criminalizzazione di una giusta vertenza di massa. Altrimenti si rischia di tacere le reali responsabilità politiche (che sono criminali) assecondando il meccanismo di propaganda che punta ad affermare la linea (filo-camorrista) degli inceneritori come soluzione della “emergenza”. Un problema esploso drammaticamente negli ultimi anni, ma che affonda le sue radici in tempi indubbiamente più remoti.
Pertanto, è ovvio che il problema riguarda tutti, non solo le popolazioni di Napoli e della Campania, non solo le comunità meridionali, e nemmeno solo gli italiani, ma tutti gli abitanti del pianeta. La questione non può essere ridotta ad un ragionamento circoscritto che asseconda gli istinti più egoistici e particolaristici, per cui nessuno vuole la spazzatura altrui, in questo caso l’immondizia di Napoli, ma è necessario vincere ogni campanilismo e localismo, per promuovere ed impostare, invece, un discorso di solidarietà, di educazione e di sensibilizzazione culturale, morale e civile, di natura sovracomunale e intercomunitaria. Oltretutto, la spazzatura in questione non appartiene solo ai napoletani, ma probabilmente proviene in gran parte da fuori, anche e soprattutto dal Nord Italia e dal Nord Europa. Per decenni il territorio di Napoli e della Campania ha ospitato (ed ospita tuttora) numerose discariche abusive, gestite come tutti sanno dalla camorra, discariche dove vengono riversati i residui e i veleni più nocivi e pericolosi, di tipo chimico e persino nucleare, provenienti dalle zone più sviluppate e industrializzate del Nord Italia e del Nord Europa.
Questa piaga decennale è una delle conseguenze e degli scotti che paghiamo a causa di un processo di sottosviluppo storico coloniale favorito dall’occupazione militare e politica del Regno delle Due Sicilie da parte dello Stato “unitario” italiano, sorto in seguito alle cosiddette “guerre di indipendenza” (o “guerre risorgimentali”) che furono guerre di conquista e di rapina economica e culturale, condotte dalla monarchia sabauda con la complicità di alcune potenze europee (Francia e Inghilterra in testa), della massoneria anglo-francese e piemontese, nonché grazie all’apporto decisivo di squallidi e ambigui personaggi tra cui il pirata-massone-carbonaro Giuseppe Garibaldi, esaltato come “eroe nazionale” dalla falsa e mistificante mitologia filo-risorgimentale.
La soluzione estrema escogitata dal governo Prodi per rispondere al problema che ormai sembra essergli sfuggito di mano, è stata la nomina del “prefetto di ferro” Gianni De Gennaro (famigerato “manganellatore” responsabile della mattanza di Genova nel luglio 2001) in qualità di “Commissario straordinario per l’emergenza”, dotato di superpoteri e delegato a “risolvere” il problema così come è stato abituato a fare finora, ossia ricorrendo alla brutalità poliziesca.
Insomma, se ancora ci fossero dubbi, la risposta adottata dal governo è precisamente una reazione di segno colonialista, che si traduce nell’invio dell’esercito guidato da un “uomo forte”, così come fanno da sempre tutti gli Stati colonialisti di fronte ad una rivolta che esplode in una colonia. L’uso della forza e della repressione militare è esattamente nello stile, nella natura e nella storia dello “sbirro” De Gennaro.  Infatti, come hanno riportato diverse fonti ufficiali di stampa, il premier Romano Prodi, al termine di un vertice tenuto a Palazzo Chigi e durato oltre tre ore, ha annunciato che per superare “l’emergenza” dei rifiuti in Campania “ci si avvarrà del concorso qualificato delle Forze armate per le situazioni di straordinaria necessità e urgenza”. Tradotto in altre parole, c’è da aspettarsi una nuova mattanza sociale, come quella vista a Genova durante le “roventi” giornate del G8?
Come ha scritto Franco Berardi, in arte Bifo, in un bell’articolo apparso su vari siti web, “la scelta di spedire De Gennaro a Pianura trasforma il governo dell’impotenza in un governo di polizia”. A questo punto, con tale scelta scellerata cade anche l’ultima differenza che si poteva scorgere, benché faticosamente, con l’esperienza del governo Berlusconi.
Lucio Garofalo

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Ormai non si può più restare inerti e indifferenti di fronte allo scandalo e al raccapriccio che inevitabilmente suscita in tutte le coscienze libere e normali il paesaggio orribilmente sfigurato da montagne di spazzatura che invadono ed appestano le strade della città di Napoli e dintorni. Non si può (e non si deve) restare passivi di fronte allo spettacolo indecente offerto non solo dai territori sommersi da cumuli di immondizia, ma anche dalla gente di Pianura assalita brutalmente dalle forze dell’ordine al servizio di un potere cieco e sordo che ha fallito rovinosamente e ora tenta di scaricare (come sempre) le proprie responsabilità e i propri “sensi di colpa” criminali sulla popolazione. Un potere osceno e nauseabondo come la spazzatura! Un potere inteso non solo come ceto politico locale e nazionale, ma anche come sistema economico-affaristico costituito da un intreccio lurido e perverso, ma nel contempo “fisiologico” e inevitabile, tra capitalismo lecito ed illecito, incentrato sulla malavita imprenditoriale organizzata. Oltre al danno (ovvero i delitti e lo scempio di ordine economico-ambientale, sociale e morale), oltre alle “mancanze” e alle “inadempienze” storiche che si sono accumulate per anni, insieme ai sudici ammassi di spazzatura, la gente partenopea deve sopportare anche l’amara beffa cagionata dalla fiera dell’ipocrisia, dall’invereconda esposizione televisiva delle “lacrime di coccodrillo” del “povero ed afflitto” governatore Bassolino.
Gli spazi pubblici (invivibili da anni) di Pianura, come di altri quartieri napoletani, sono assediati e infestati da cumuli di rifiuti. C’e gente che non riesce più a varcare la soglia di casa per uscire (anche solo per fare la spesa) essendo impedita da mucchi insormontabili di immondizia. A Napoli e dintorni è in atto un’aspra e feroce vertenza di massa, esplosa come una spaventosa eruzione del Vesuvio, che forse avrebbe arrecato meno danni. Su Napoli e sull’intera Campania incombe un vero disastro ecologico e territoriale, una catastrofe sanitaria e sociale. Ma incombe anche un’ingiusta e velenosa condanna di stampo razzista, emessa da parte di un sistema mediatico-propagandistico che invece di denunciare il colonialismo storico che affligge le comunità del nostro Meridione, preferisce evocare formule precostituite, ideologicamente pregiudizievoli e compromettenti sulla presunta inferiorità e arretratezza culturale dei popoli meridionali, in particolare della gente partenopea. Gente che invece è figlia di un ricco coacervo storico-culturale generato dalla Magna Grecia ed altre antiche e raffinate civiltà mediterranee.
Ho sempre associato la nozione e l’immagine dell’intellettuale a figure scomode e destabilizzanti come Antonio Gramsci e Pier Paolo Pasolini, mosse da una profonda e coraggiosa passione civile autenticamente rivoluzionaria, che li ha indotti ad assumere sovente posizioni fermamente critiche e controcorrente, sempre schierate dalla parte dei soggetti più deboli e indifesi, gli “umili” di Manzoni, i “vinti” di Verga, insomma i reietti e i diseredati della nostra società (ecco come si manifesta il vero anticonformismo), rispetto alle scelte e agli schemi di giudizio e di condotta predominanti.
Pertanto, lancio un accorato appello per invitare tutti gli intellettuali liberi e coscienti della nostra terra, intesa non solo come Irpinia, bensì in un senso più lato che abbracci l’intero Meridione, a fare altrettanto, a prendere iniziative e posizioni assolutamente scomode e irriducibili rispetto alla linea imposta dai mass-media ufficiali assoggettati ai poteri dominanti che vogliono tacere le proprie atroci responsabilità, scegliendo la strada della repressione e della criminalizzazione a scapito delle comunità locali che si ribellano giustamente ad uno stato di “emergenza permanente” che dura ormai da oltre un decennio e che è funzionale solo a logiche occulte, prettamente affaristiche e criminali.
Lucio Garofalo

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