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La saga continua

 

L’interminabile saga cinematografica consacrata alle gesta epiche dell’Uomo del Monte ha inizio con la cosiddetta “Trilogia del potere”, che comprende tre episodi: “De Mita, la genesi”, “De Mita, l’ascesa“ e “De Mita, l’apoteosi”. I primi tre film della lunga serie dedicata all’epopea demitiana, rievocano l’infanzia e le esperienze politiche giovanili del protagonista a partire dalla nascita in quel di Nusco, un paesino arroccato sui monti irpini, fino a ricostruire la rapida ascesa e la scalata del potere politico, prima sul terreno locale e poi su quello nazionale, quando nelle mani di Super Ciriaco si concentrarono la segreteria nazionale della Democrazia Cristiana e la guida del governo.

In seguito, la saga cinematografica si è arricchita di una nuova trilogia, la cosiddetta “Trilogia dell’eroe”, comprendente altri tre episodi significativi. Il primo dei quali, intitolato “De Mita, la caduta”, descrive la fase discendente della parabola demitiana, ripercorrendo lo scandalo dell’Irpiniagate e le vicissitudini politico-giudiziarie di Tangentopoli che hanno sancito il crollo della Prima Repubblica, decretando la fine ingloriosa del regime craxiano e dell’asse governativo C.A.F. (Craxi/Andreotti/Forlani).

Il secondo episodio ha per titolo “De Mita, il riscatto” e racconta la fase successiva della leggendaria carriera di Super Ciriaco, sopravvissuto eroicamente alla bufera di Mani Pulite, ripercorrendo le tappe della ripresa dopo l’avvento della Seconda Repubblica e la “discesa in campo” del sedicente “nuovo che avanza”, il presunto “Unto del Signore”, in arte “Cavaliere Nero”, alias “Satiro nazionale”, al secolo Silvio Berlusconi da Hardcore.

 Il terzo ed ultimo episodio della trilogia in questione si intitola “De Mita, ancora tu?“ e mette in scena le nuove prodezze (ogni riferimento a Prodi è puramente involontario e casuale) del nostro irriducibile eroe, che resiste con tenacia alle avversità del destino.

E’ imminente la proiezione nelle sale cinematografiche dell’ultimo film che chiude (per il momento) la saga mitologica del Signore di Nusco. Il titolo è “De Mita, la vendetta”, scritto, diretto ed interpretato dal mitico Ciriaco in persona. Un film da non perdere.

Il film narra come, dopo l’amara esclusione dalle liste del PD ad opera del finto “buono”, il cinico Veltronix, l’eroe di Nusco decide di abbandonare il partito per aderire alla formazione politica della Rosa Bianca ed infine all’UDC. Da quel momento coverà nell’animo un solo sentimento e un solo scopo: vendicare il torto subito dal perfido nemico. Il quale, con la scusa dell’età, lo ha malamente estromesso dalle candidature spingendolo ad uscire dal partito, dopo che lo stesso Ciriaco aveva concorso alla formazione del PD e al trionfo di Veltronix alle primarie del Partito Demo(n)cratico.

In effetti l’età non c’entra nulla, visto che un altro personaggio più anziano del nostro eroe è convinto dal famigerato Veltronix a candidarsi nelle liste del PD. Il vero motivo dell’epurazione di Ciriaco è l’accento dialettale che tradisce l’origine meridionale, più esattamente irpina. Dunque, Veltronix ha dimostrato di essere un razzista anti-meridionale, ma non ha compreso chi si è inimicato. Ora il nostro eroe ha una ragione in più di vita e può coltivare la più nobile ed eroica tra le passioni umane, cioè la vendetta.

 La sete di rivincita lo induce a spendere tutte le sue energie per restituire lo smacco ricevuto dall’acerrimo nemico Veltronix, contribuendo alla capitolazione del PD, ma soprattutto alla sconfitta di un suo “ex pupillo” locale, l’onnipotente sindaco di Lioni.

 Le competizioni elettorali che si stanno disputando in questi giorni in alcuni centri dell’Alta Irpinia potrebbero rivelare esiti imprevisti. La campagna elettorale ha già riservato i primi colpi di scena, ma il bello deve ancora venire. Non intendo anticipare le sensazionali sorprese contenute nel film, per cui vi consiglio di non perdere l’epilogo.

 La leggendaria saga dell’Uomo del monte, imperatore dell’Alta Irpinia, non si è ancora definitivamente compiuta, ma continuerà ad essere rappresentata sul grande schermo.

 To be continued

Lucio Garofalo

Ieri mattina, Roma è stata invasa da migliaia di pellegrini giunti nella capitale per assistere alla cerimonia di beatificazione di Karol Wojtyla, in arte papa Giovanni Paolo II. Per l’occasione sono rimasti aperti i numerosi negozi che riempiono le vie della Città del Vaticano, lo stato più piccolo e nel contempo uno dei più ricchi e potenti del mondo.

 Piazza San Pietro è stata il punto di arrivo e di raccolta in cui si sono concentrate le masse dei fedeli idolatranti. L’evento mediatico, trasmesso a reti unificate, ha eclissato e costretto in secondo piano le manifestazioni legate al Primo Maggio, celebrato quest’anno in salsa “patriottica” in omaggio al 150° anniversario dell’unità d’Italia.

 Le folle di devoti adoranti, riunite dinanzi al “Cupolone” della basilica di San Pietro, hanno oscurato il raduno che si svolge ogni anno in Piazza San Giovanni per seguire il classico concerto musicale organizzato dai sindacati confederali, anch’esso dedicato alla ricorrenza dei 150 anni dell’unità d’Italia. In tal modo, l’apoteosi papista e clericale si è sovrapposta all’orgia nazionalista. Il risultato è una sbornia di proporzioni colossali.

A proposito del “Cupolone”, anche a Lioni (visto che non ci facciamo mancare assolutamente nulla) abbiamo il nostro piccolo “cupolone”, o “panettone”, come qualcuno l’apostrofa, vale a dire la chiesa consacrata al patrono del paese, San Rocco.

Inoltre, a contendersi gli scranni del sindaco e della Giunta comunale si sono presentate quest’anno due “cupolette”, in pratica due cricche locali. Pertanto, dover scegliere tra due “offerte opzionali” perfettamente complementari tra loro, per nulla alternative bensì speculari, è un atto semplicemente imbarazzante, nonché sterile e frustrante.

 C’è chi obietta e suggerisce di votare (dunque, premiare) il “male minore”. Ah! Ah! Ah! Una valanga di risate li seppellirà. Ma se non basterà una risata, vorrà dire che si dovrà “scendere in campo” per contrastarli sul loro terreno, cioè sul terreno dei rapporti di forza, per “marcarli stretti”, incalzarli e, se necessario, scontrarsi con il potere reale.

 Conviene ridere per non piangere. Si pretende di farci credere ancora alla favola del “male minore” a cui non credono più neanche i bambini. Ma quale sarebbe il “male minore”? Probabilmente l’abbiamo già sperimentato. Quella del “male minore” è una soluzione consolatoria che equivale a decidere quale potrebbe essere la “fregatura minore”. Ma una fregatura è in ogni caso una fregatura. Per la serie “comunque vada, sarà una fregatura”. E non ci saranno santi protettori a salvarci dalle loro grinfie rapaci.

 Sono anni ormai che la “sinistra” italiota, sia nazionale che locale, si è ridotta a propagandare la tesi balorda e ridicola secondo cui “conviene” (a chi?) scegliere il “male minore” e puntualmente, ci ritroviamo al potere il “male peggiore”. E’ ora di smetterla.

Il “miracolo della democrazia” consiste nell’estrema facilità con cui la gente si lascia abbindolare ed ingannare, nell’estrema facilità con cui la gente si convince a recarsi alle urne per scegliere ogni 5 anni, se non anticipatamente, i padroni da cui farsi sfruttare.

Lucio Garofalo

 

Dopo la proclamazione a beato di Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyla, non mi azzardo ad entrare nel merito specifico della causa di “beatificazione” poiché non dispongo di adeguate competenze su un argomento così ostico. Mi preme invece, esporre un giudizio storico sulla figura e sull’opera, senza dubbio vasta, articolata e complessa, di uno dei papi più longevi, controversi ed influenti nella storia della curia pontificia.

Di fronte all’imponente e insistente campagna di esaltazione mediatica condotta a reti unificate, confesso di aver provato un senso di fastidio. Ho avvertito l’impressione di un salto temporale a ritroso che ci ha trasportati all’epoca dello Stato pontificio e del papa-re. Non intendo sfidare l’ira cattolico-nazionale, ma vorrei provare ad esprimere un’opinione difforme rispetto al vento di conformismo neoguelfo che si respira sul fronte mediatico.

In effetti, un papa che sin dall’avvio del suo pontificato ha rivelato notevoli e sorprendenti abilità nell’usare il potere dei media, si è confermato tale anche post mortem, quando gli è stata tributata un’apoteosi planetaria. Abbiamo assistito ad uno spettacolo di ipocrisia mediatica e mistificazione storica, ad una sbornia apologetica e filo-clericale, ad un martellante bombardamento volto a santificare ed osannare la figura del papa, vanificando ogni tentativo di analisi critica aperta e sincera. In un clima di fanatismo è quasi impossibile formulare una valutazione seria, onesta ed imparziale.

Bisogna analizzare con attenzione e senso critico i “successi” storici di Wojtyla. Il quale, almeno nelle enunciazioni di principio, seppe ergersi a paladino della “pace universale” in un momento difficile come il 1991, durante la prima guerra nel Golfo persico, quando le parole di aperta condanna del papa si imposero come una delle poche voci contrarie al conflitto, quando non era ancora apparso il movimento no-global, protagonista da Seattle in poi. Tuttavia, mentre il pontefice esecrava la guerra in Iraq, alcune banche cattoliche, ribattezzate non a caso “banche armate”, finanziavano (e finanziano tuttora) l’esportazione di armamenti che sono all’origine dei numerosi conflitti nel mondo.

Non bisogna dimenticare che il 1991 fu l’anno in cui, dopo la caduta del muro di Berlino e dei regimi incancreniti e burocratici dell’Est europeo, si affermò il “nuovo ordine mondiale”, un assetto unipolare del mondo imperniato sulla superpotenza statunitense, un sistema imperiale che consacrò l’ascesa dei dogmi neoliberisti del “pensiero unico” e della “fine della storia”. Nessuno dubita che il pontificato di Giovanni Paolo II sia stato segnato da eventi epocali come il crollo del “socialismo reale”, alla cui causa ha fornito un apporto ideologico importante proprio Wojtyla, che nel contempo non ha lesinato critiche al cinismo immorale del mercantilismo, deplorando l’arroganza e l’ingerenza del capitalismo in una fase espansiva dell’economia di mercato. Ma un bilancio obiettivo e sereno sul suo pontificato non può ignorare la cifra ambigua che affiora da alcuni comportamenti e scelte del papa, ben sapendo che la sua voce è stata recepita soprattutto dalle masse dei dannati e diseredati che vivono nei continenti più poveri come l’Africa, non dai potenti che al suo funerale hanno versato lacrime di coccodrillo.

Eletto papa nel 1978, Wojtyła favorì l’ascesa dell’Opus Dei, una congrega occulta condannata dalla chiesa stessa, assegnandole ufficialmente un’autonomia giuridica nella Chiesa. L’Opus Dei, detta anche Octopus Dei, “la piovra di Dio”, con un richiamo esplicito alla sua struttura mafiosa, controlla una catena mondiale di banche e di aziende. Il fondatore dell’Opus Dei, José María Escrivá de Balaguer, fu consigliere del dittatore spagnolo Francisco Franco, fu proclamato beato nel 1992 e canonizzato nel 2002 proprio da Wojtyła. Un papa che non ha esitato a stringere la mano di un boia come Pinochet durante la visita in Cile nel 1987, che ha condannato la “Teologia della Liberazione”, l’unico serio e credibile movimento di militanza cattolica a favore della libertà e della giustizia sociale dei popoli oppressi dalle dittature in America Latina.

Un papa che ha coperto le responsabilità vaticane nello scandalo del Banco Ambrosiano, in particolare del cardinale Paul Marcinkus, presidente dello IOR, la potente banca vaticana che il predecessore di Wojtyla, papa Luciani, in arte Giovanni Paolo I, aveva programmato di riformare, così come aveva in mente di aprire ufficialmente la Chiesa all’uso dei contraccettivi. Quando nel 1983 Marcinkus fu condannato per bancarotta fraudolenta e istigazione all’omicidio nel caso Ambrosiano, Giovanni Paolo II permise al reo di fuggire negli Usa e restarvi fino alla morte nel 1992. Inoltre, Wojtyla indignò l’opinione pubblica mondiale quando rifiutò di ricevere Rigoberta Menchù, premio Nobel per la pace per aver dedicato la sua vita alla lotta per i diritti degli indios messicani.

 Insomma, Giovanni Paolo II è stato il monarca dell’unica autocrazia feudale e l’unica gerarchia piramidale tuttora esistente al mondo. Un regno scandito da decisioni equivoche e contrastanti. Sul piano della politica “estera” l’opera del papa è stata ispirata nelle dichiarazioni ufficiali da ideali evangelici, ma al di là delle chiacchiere menzognere e strumentali è stata discutibile, come sul fronte interno l’azione pontificia ha sancito in modo assolutistico e dogmatico posizioni di conservazione nel campo dei diritti al divorzio e all’aborto, in materia di costumi sessuali che sono abitudini interiorizzate dalla coscienza di milioni di donne e uomini che vivono nel mondo occidentale e professano una fede cattolica. E’ innegabile che su temi di enorme rilevanza etica e civile, la linea della chiesa governata da Wojtyla sia stata apertamente miope ed incapace di adeguarsi alla realtà secolare dei costumi odierni. Giovanni Paolo II si è dimostrato tanto fermo e perentorio nell’escludere le donne dal sacerdozio quanto deciso a scagliarsi contro la contraccezione e l’uso del profilattico. Questa crociata ha coinciso con l’incremento esponenziale dei decessi per Aids nel mondo, specie in Africa.

 Non si può fingere di non vedere le attuali posizioni del Vaticano e del clero contro-riformatore e preconciliare, il cui peso si estrinseca in termini di arroganza e di fariseismo che tradiscono rigurgiti neoguelfi ed attestano un processo di egemonia e di restaurazione clericale che sono tendenze intrinseche alla storia, alla cultura e alla società italiane. Un blocco di fattori politici e culturali hanno causato la resa della laicità e della democrazia nel nostro Paese, riconsegnato, semmai si fosse affrancato, nelle mani di una teocrazia cattolico-integralista il cui despota è Ratzinger, la mente strategica della reazione clericale.

 

E’ innegabile che l’avvento di Ratzinger ci abbia consegnato un papa oscurantista e retrogrado. I politici di professione, con ambizioni di carriera, rinunciano o esitano a fare simili affermazioni per non urtare la suscettibilità delle gerarchie ecclesiastiche e non perdere i consensi elettorali. Ma chi non persegue scopi elettorali sarebbe ipocrita se non denunciasse quella che è una realtà evidente, cioè che in Italia si è verificato un profondo regresso socio-culturale in senso illiberale.

 Non ha senso accettare, in nome di una democrazia bigotta, la sovranità e la volontà del popolo italiano, poiché questo non ha mai avuto l’occasione di manifestarsi liberamente avendo subito ingerenze che ne hanno condizionato o impedito il libero arbitrio, a causa di un regime che non è mai morto ed oggi è più forte e radicato rispetto al passato. Il potere clerico-fascista è risorto (semmai fosse defunto) più intollerante e arrogante che mai. Si avvalora un dato storico già sancito da Gramsci e ribadito da Pasolini: in Italia la sinistra laica, democratica e progressista, è politicamente minoritaria. Non a caso, per vincere le elezioni e battere una destra filo-clericale, populista e reazionaria, la sinistra è costretta a stringere alleanze con una parte del centro e dei cattolici moderati.

Lucio Garofalo

In occasione del 25esimo anniversario del disastro di Chernobyl, che ricorreva esattamente il 26 aprile scorso, è tornato in mente un accostamento con il 1986, in modo particolare per la coincidenza di due eventi: l’attacco militare contro la Libia (per la cronaca, ricordo che nel 1986 l’amministrazione presieduta da Ronald Reagan ordinò il bombardamento di Tripoli e Bengasi) e l’incidente nucleare nella cittadina ucraina.

L’attuale situazione politica ed economica mondiale è inasprita da numerosi altri fattori, a cominciare dalla gravissima recessione internazionale, paragonabile alla “grande depressione” del 1929, indubbiamente peggiore rispetto alla crisi petrolifera del 1974.

 Non c’è dubbio che il regime libico di Gheddafi non abbia mai svolto un ruolo effettivamente “critico” o “antagonista” rispetto alle ingerenze dell’Occidente, tanto nel 1986 quanto nel 2011, ma è stato sempre funzionale agli interessi di supremazia economica, politica e militare, cari alle potenze imperialistiche del Nord del mondo.

Peraltro l’atteggiamento ambiguo e controverso della Libia ha sempre fatto comodo alla Cia e al militarismo Usa, al Mossad e al terrorismo sionista, ed ha sempre osteggiato, di fatto, la causa palestinese, soprattutto quando il colonnello Gheddafi ha armato e appoggiato le fazioni palestinesi più estremiste e violente, come il gruppo paramilitare fondato e guidato da Abu Abbas, il Fronte per la Liberazione della Palestina, che non a caso si rese responsabile dell’eliminazione fisica di numerosi esponenti dell’OLP di Arafat, quasi quanti ne abbiano assassinati gli agenti dei servizi segreti israeliani.

 L’anno prima della tragedia di Chernobyl, ossia nel 1985, un commando che faceva capo al FLP realizzò, al largo delle coste egiziane, il dirottamento dell’Achille Lauro, una nave da crociera italiana, sequestrando l’equipaggio e i passeggeri. Nel corso dell’azione perse la vita Leon Klinghoffer, un disabile di religione ebraica e cittadinanza statunitense. La vicenda fu all’origine della “crisi di Sigonella” esplosa tra il governo italiano, guidato all’epoca da Bettino Craxi, e l’amministrazione Usa di Ronald Reagan.

 

La “guerra umanitaria” in Libia e la catastrofe di Fukushima sono due avvenimenti inquietanti che fotografano in modo emblematico l’incombente crisi energetica planetaria, che dovrebbe indurre i governi ad intraprendere strade alternative rispetto alla dipendenza dalle fonti petrolifere e nucleari, per orientarsi verso la ricerca e lo sfruttamento di risorse energetiche più pulite e rinnovabili.

 Esistono mille ragioni per farlo, anzitutto di convenienza pratica, ma anche pulsioni di tipo basico, come la salvaguardia del genere umano. Ci dovrebbe spingere in tale direzione l’istinto di autoconservazione della specie, o il buon senso, eppure prevalgono altre spinte, senza dubbio autodistruttive, interessi affaristici che sono appannaggio di una ristretta cerchia di compagnie economiche multinazionali che agiscono a danno della sopravvivenza dell’umanità e delle principali forme di vita sul nostro pianeta, cioè a nostro discapito.

 Oggi più che nel passato, sin dai tempi mitici e primordiali di Prometeo, l’eroe titanico che rubò il fuoco agli dei per donarlo all’umanità, questa è seriamente minacciata da molti fattori di rischio, e non mi riferisco semplicemente ad un’eventuale “apocalisse atomica” o ad immani devastazioni belliche, né solo alla crisi che investe il capitalismo.

Lucio Garofalo

Chiarisco subito che il presente articolo è a sfondo eroicomico e satirico, e come tale va letto. Un adagio recita “la realtà supera la fantasia” e a volte la realtà supera persino la satira. La saggezza popolare ci assiste soprattutto in tempi di campagna elettorale.

 Fatta questa premessa, introduco l’argomento. Anni fa, parafrasando una frase di Lenin sull’estremismo come “malattia infantile del comunismo”, ebbi modo di intuire che “il demitismo è la malattia senile di un certo tipo di marxismo”. In un quadro di tatticismi, acrobazie ed equilibrismi politici che si sono intensificati a livello locale, mi pare di dover aggiornare la battuta nel seguente modo: “il demitismo senza De Mita è la malattia senile di un certo tipo di ex marxismo”.

A proposito di demitismo non si può non ricordare il piano di finta industrializzazione imposto negli anni della ricostruzione post-sismica, che ha rovinato l’ambiente e l’economia locale. In Irpinia venne importato un modello di sviluppo calato da una realtà che non ci appartiene, per cui si è rivelato fallimentare. E non poteva essere altrimenti. Per inciso, ricordo le tante ”cattedrali nel deserto” come l’ESI SUD, la IATO e altre industrie fallite, i cui dirigenti, in gran parte provenienti dal Nord Italia, hanno installato i loro impianti nelle nostre zone sfruttando i finanziamenti previsti dalla Legge 219/1981 varata per l’industrializzazione e la ricostruzione delle aree terremotate. Quel disegno si basava su una strategia miope poiché non teneva conto del mercato locale e delle peculiarità del nostro territorio.

Riprendendo il discorso iniziale occorre notare come in questo turno elettorale, a contendersi la carica di sindaco di Lioni siano due figure tra loro diverse, ma speculari, della politica locale: l’uno si proclama di centro-sinistra, l’altro fa riferimento ad una “lista civica” che è il travestimento di una coalizione di centro o centro-destra, o viceversa. Non voglio affermare in modo qualunquistico che le posizioni siano intercambiabili, ma non nascondo una certa tentazione a farlo. Probabilmente la differenza tra i due candidati, per certi versi casuale, è la seguente: l’uno è un ex marxista, ex demoproletario, ex craxiano, ex demitiano, ex anti demitiano, l’altro è una sorta di outsider, la cui candidatura a sindaco è emersa all’ultimo minuto, come impone ormai la tradizione lionese, ma non è esattamente un neofita, ma uno degli esponenti relativamente più giovani della “vecchia guardia” socialista che a Lioni ha sempre avuto una presenza politica di rilevo, quindi anch’egli è, a suo modo, un ex.

Nella precedente campagna elettorale il professore ex demoproletario, ex craxiano, ex demitiano, ricevette l’investitura dall’alto del Monte ed è stato per un periodo il referente ufficiale di De Mita sul territorio comunale, oggi è il candidato alla poltrona di sindaco di una coalizione di centro-sinistra che orbita nel campo di attrazione gravitazionale del PD con una formazione di gregari che ruotano alla stregua di vari satelliti attorno all’”astro” della politica lionese. E’ innegabile che tale ”squadra” sia imperniata sulla figura centrale del “capitano” ed è altrettanto evidente che risenta di un’egemonia personalistica esercitata dal suo “narcisismo intellettuale”. L’altro candidato alla poltrona di sindaco è, ripeto, un “outsider” che non è accreditato come il più autorevole fra gli esponenti politici lionesi, cioè un demitiano a denominazione d’origine controllata. In ogni caso non si tratta di un novizio sprovveduto ed ha alle spalle un gruppo agguerrito di “vecchie volpi” della politica locale. A questo punto la situazione relativa alla campagna elettorale per le amministrative lionesi, è ufficiale e definitiva.

 Dunque, una cosa è certa: a Lioni dobbiamo rassegnarci all’assenza di un’autentica forza di alternativa al sistema di potere vigente. A Lioni manca da tempo un’opposizione seria e credibile per cui si registra un disavanzo di democrazia, trasparenza e vigilanza che favorisce l’arbitrio di chi detiene le redini dell’Amministrazione. Al di là dei singoli episodi l’analisi si può sintetizzare nel modo seguente: la differenza tra il contesto odierno e il passato consiste nell’assenza di un soggetto di opposizione politica. Oggi il dissenso stenta a tradursi in un progetto di trasformazione dell’assetto politico e sociale lionese. Aggiungo che la mancanza di diritti e tutele a favore di chi non dispone di amicizie politiche non investe solo la realtà di Lioni. Anche in passato, se una persona non poteva affidarsi al ”santo in paradiso” in quanto non aveva agganci con il notabile che deteneva l’esercizio del potere, non contava nulla. Per quanto concerne l’orientamento da seguire, non ci sono dubbi: o si accettano ingiustizie, soprusi e prepotenze, comportandosi in modo vile e conformista, o si inizia ad agire in termini incisivi, provando ad organizzare pratiche di resistenza collettiva con tutti quelli che si dichiarano propensi ad un’azione antagonista per contrastare l’arbitrio vigente. Sono da evitare le iniziative isolate per non rischiare di subire la classica fine di Don Chisciotte (l’eroe comico per antonomasia) che pretendeva di battersi contro i mulini a vento.

 Potrei soffermarmi sulla portata storica del demitismo e sulle responsabilità del sistema politico rispetto al mancato sviluppo delle nostre zone, rispetto al miraggio dell’industrializzazione, rispetto alla disoccupazione diffusa tra i giovani, costretti ad una nuova emigrazione, rispetto allo spopolamento e al degrado delle nostre comunità. Certo, non tutti i mali sono imputabili al signore di Nusco, tuttavia esistono verità che nessuno può smentire se non in mala fede. De Mita è stato il massimo vertice istituzionale di una classe dirigente locale e nazionale che ha dominato la fase della ricostruzione post-sismica, la cui gestione è stata quantomeno discutibile nei metodi e nei fini. De Mita è tuttora in auge ed ha perpetuato il suo potere a livello locale. In Irpinia, il vero problema non è tanto la destra berlusconiana, quanto il centro demitiano. Si pensi ai guasti arrecati da un sistema imperniato sul cinismo di logiche affaristiche, clientelari e paternalistiche riconducibili alla ”scuola” di Nusco, che ha istruito diversi allievi che hanno superato il loro maestro. Senza fare nomi, questi epigoni, veri campioni del demitismo senza De Mita, sono presenti in modo trasversale.

 Uscendo fuor di metafora, cioè fuori dal linguaggio ironico e surreale della satira, provo a sintetizzare il mio “atto d’accusa”. Al sistema berlusconiano si rimprovera il conflitto d’interessi che privilegia B. e la sua cricca. Ciò è un dato di fatto. Eppure, quanti conflitti d’interessi sono evidenti, o latenti, nel campo delle amministrazioni locali? E nel caso di Lioni? Un conflitto d’interessi riguarda il commercio, che è da sempre l’ossatura dell’economia locale. Ebbene, colui che presiede la gestione di tale settore è coinvolto direttamente in quanto commerciante. Cos’è questo se non un conflitto d’interessi in piena regola? Insomma, la Pubblica Amministrazione è ormai ridotta ad un comitato d’affari. Ma la cosa più grave è che è mancata una degna opposizione tra i banchi del Consiglio municipale. E quando manca un soggetto che garantisca un’azione di controllo, trasparenza e denuncia amministrativa, il rischio è una deriva autoritaria e una degenerazione morale della Pubblica Amministrazione, che scade nel regno degli abusi e delle ingiustizie a danno della comunità e a vantaggio di affaristi senza scrupoli.

Chiudo con una provocazione finale. Affarismo, assistenzialismo, clientelismo, parassitismo e paternalismo, sono l’essenza di un potere criminogeno che incoraggia comportamenti disonesti, seminando il germe dell’illegalità. Esempi in tal senso sono il berlusconismo e il demitismo. L’aspetto più inquietante è che tali sistemi esistono indipendentemente dai loro iniziatori grazie a discepoli in grado di scalzare i “maestri”.

Lucio Garofalo

 

Esordisco con una testimonianza personale, sia pure solo verbale, di solidarietà e di vicinanza morale nei confronti dei migranti e dei cittadini di Lampedusa, giustamente esasperati dall’inettitudine, dall’arroganza e dal menefreghismo del governo italiano.

 

L’ignominiosa vicenda di Lampedusa è estremamente paradigmatica nella misura in cui fornisce l’ennesima, agghiacciante conferma (di cui si poteva tranquillamente fare a meno) che i diritti umani sono sistematicamente violati e calpestati nel nostro Paese e poi ci vengono a parlare di interventi “umanitari” da compiere in Libia o altrove. Quanto sta accadendo a Lampedusa è un esempio emblematico e grottesco dell’ipocrisia e della cattiva coscienza del mondo occidentale, nella fattispecie è una rappresentazione inequivocabile del degrado e dell’imbarbarimento politico dell’Italia e dell’Europa.

E’ innegabile che il comportamento del governo Berlusconi di fronte ad una reale e drammatica emergenza umanitaria sia stato quanto meno deprecabile e disonesto, tant’è che nel corso dell’ultima puntata di Anno Zero, a cui erano presenti Gino Strada e Ignazio La Russa, il portavoce di Emergency ha chiesto al ministro che fine avesse fatto il senso di umanità e di civiltà nel nostro “Belpaese”, ma soprattutto tra gli esponenti del governo in carica. Francamente mi è parso come pretendere compassione e comprensione da parte di un muro di pietra. Infatti, dall’altra parte sedeva La Russa.

Ma il “capolavoro” lo ha compiuto Tremonti, che ha tardivamente scoperto la classica “acqua calda” nel momento in cui ha suggerito di soccorrere i popoli arabi “a casa loro” come sento ripetere, senza alcun riscontro pratico, da quando ero ancora in fasce. Il ministro dell’economia ha rilanciato questa vecchia proposta di stampo paternalista e cripto-colonialista per una finalità che è comoda e funzionale agli interessi egoistici e meschini della piccola borghesia “padana” che fa capo alla Lega Nord, evidentemente terrorizzata all’ipotesi di un’invasione in massa di immigrati africani, per cui sta imponendo la “linea dura” che è quella di evitare che i flussi migratori giungano a “casa propria”. L’importante, per costoro, è che l’ondata migratoria resti confinata, finché possibile, nella piccola e remota isola di Lampedusa o in altri luoghi “miserabili” del Sud Italia, tanto chi se ne frega: “sono tutti marocchini”. E’ un’ottica allucinante e miope.

Una persona, evidentemente di buon senso, mi ha posto una domanda oltremodo scontata e legittima, che definirei addirittura ingenua nella sua estrema semplicità e franchezza: “perché non li smistano altrove?”. In effetti questa sembra essere l’unica soluzione possibile e praticabile, oltretutto di facile attuazione nel breve periodo, trattandosi di un’ipotesi pragmatica e di buon senso, eppure non viene eseguita. Perché?

Sinceramente mi pare di poter cogliere una serie di inquietanti analogie con la vicenda, altrettanto obbrobriosa e raccapricciante, dell’immondizia di Napoli, con la differenza (non di poco conto) che ora stiamo parlando di esseri umani, che evidentemente sono considerati e trattati alla stregua dei “rifiuti” in quanto nessuno li accetta a “casa propria”, esattamente come è accaduto con la spazzatura proveniente da Napoli.

L’accostamento tra i rifiuti di Napoli e i “rifiuti umani” di Lampedusa potrebbe risultare una provocazione assurda ed esagerata, ma è probabilmente l’unica chiave interpretativa per spiegare quanto sta accadendo in questi giorni in un paese che si proclama “civile” e che in questi mesi sta festeggiando i 150 anni della sua “unità”.

E’ evidente che nel caso specifico le difficoltà oggettive sono aggravate da fattori di ordine soggettivo, riconducibili cioè all’ambito delle decisioni dettate dai responsabili della politica. Mi riferisco all’inettitudine, all’impreparazione ed alle lentezze, a dir poco grossolane, messe in mostra dalle autorità politiche soprattutto governative, e all’assenza di un’efficace volontà di risoluzione che coincide e si intreccia in qualche misura con una logica becera e razzista che ha l’interesse a generare un elemento di ulteriore conflittualità e lacerazione sociale, che oltretutto fornisce una sorta di “diversivo”, un mezzo di “distrazione di massa” rispetto ad altre vicende ed altre questioni, interne ed esterne, che hanno imbarazzato ed hanno messo alla berlina la figura, già goffa e ridicola, del capo del governo italiano. E non mi riferisco solo agli eclatanti scandali sessuali che ultimamente sono passati, guarda caso, in secondo piano.

Lucio Garofalo

Da comunista internazionalista sono convinto che l’idea stessa di patria o nazione sia un anacronismo storico, come anacronistici e superati sono gli assetti economici e politici in cui si configurano gli stati nazionali, che non servono più neanche come “involucro protettivo” del capitalismo, che ormai si muove ed opera in un’ottica globalizzata.

 Nel contempo, da meridionalista confesso che mi sta letteralmente nauseando questo clima di finta esaltazione “patriottica”, così come mi infastidisce l’approccio aprioristico di chi affronta il processo “risorgimentale” con uno spirito acritico e apologetico e, nel contempo, con un pregiudizio mentale nei confronti dei “vinti”, cioè con la convinzione (assolutamente errata) che il Sud fosse arretrato economicamente e socialmente prima della cosiddetta “unità”, cioè all’epoca dei Borbone. L’idea per cui il Meridione fosse una realtà da colonizzare militarmente, politicamente e culturalmente, come di fatto è accaduto con l’annessione del Regno delle Due Sicilie da parte della monarchia sabauda.

Ricordo che i Savoia aprirono a Fenestrelle, come altrove, diversi campi di concentramento e di sterminio in cui vennero deportati ed uccisi migliaia di soldati borbonici e di briganti (anche donne e persino bambini) all’indomani della cosiddetta “unità d’Italia”, perpetrando una vera e propria pulizia etnica che anticipava la politica di genocidio praticata nei lager nazisti dal regime hitleriano. E questo aspetto costituisce un’altra tessera totalmente rimossa dalla memoria e dagli archivi storici, che serve a svelare il vero volto (sanguinario) della cosiddetta “epopea risorgimentale”.

Come sanguinaria fu anche la cosiddetta “epopea western”, cioè la conquista del West americano compiuta attraverso lo sterminio dei pellerossa, che prima dell’arrivo dei bianchi si contavano a milioni mentre oggi sono meno di 50 mila, emarginati e rinchiusi nelle riserve. Da tale analogia nasce l’idea di un destino parallelo tra Indiani d’America e briganti meridionali, tra l’“epopea western” e l’“epopea risorgimentale”, entrambe mitizzate dalla storiografia ufficiale che ha cancellato completamente la verità storica.

 La rilettura storiografica del Risorgimento è un serio tentativo di controinformazione storica, da non confondere con il revisionismo, e comporta una fatica intellettuale notevole, esige un impegno critico costante, come ogni battaglia di controinformazione. Anzitutto, occorre comprendere che i popoli oppressi non si affrancano mai grazie all’intervento “provvidenziale” compiuto da “eroici liberatori” esterni, che si tratti di Giuseppe Garibaldi, dei Savoia o degli Americani (vedi il caso dell’Iraq). Al contrario, i popoli oppressi possono conquistare un livello superiore di progresso e di emancipazione solo attraverso la lotta rivoluzionaria, altrimenti restano in uno stato di sottomissione.

Io non provo alcuna nostalgia sentimentale per il passato, specie per un passato dispotico e feudale, segnato dalla barbarie, dall’oscurantismo, dallo sfruttamento e dall’oppressione delle plebi rurali del Sud. Non ho mai nascosto, anzi ho sempre ammesso la natura reazionaria della causa borbonica, pur riconoscendo una certa dose di legittimità nelle rivendicazioni sociali rispetto alle violenze, ai soprusi e ai massacri commessi dalle truppe occupanti. Pur riconoscendo il carattere antiprogressista e sanfedista del brigantaggio post-unitario, ciò non mi impedisce di indagare meglio le ragioni che spinsero i contadini meridionali a resistere contro gli invasori piemontesi.

 Io sono comunista e non credo negli stati nazionali, ma nell’internazionalismo. Io non propugno affatto uno “stato meridionale indipendente”. Solo un pazzo o uno stolto può immaginare una simile prospettiva. Preferisco ipotizzare un’altra situazione, cioè una prospettiva transnazionale o, come si diceva una volta, internazionalista, vale a dire l’idea dell’abbandono e del superamento definitivo degli stati-nazione, nella misura in cui lo stesso capitalismo è da tempo proiettato in una dimensione transnazionale.

 Ormai il capitalismo sta letteralmente impazzendo. Basta osservare il terremoto economico e sociale che comincia appena a manifestarsi nelle rivolte sociali e politiche dei popoli arabi e magrebini. I sommovimenti tellurici e sociali si estendono a livello planetario, per cui richiedono prese di posizione nette e coraggiose rispetto ad eventi epocali che stanno sconvolgendo la fisionomia economica, politica e sociale del mondo capitalistico.

In quanto comunista internazionalista il patriottismo non mi interessa affatto. So che il nazionalismo e lo sciovinismo appartengono all’epopea ormai superata della borghesia ottocentesca ed hanno già mietuto milioni di morti nei due tragici conflitti mondiali. L’unico “patriottismo” che dobbiamo riconoscere ed appoggiare è l’internazionalismo proletario, cioè la lotta rivoluzionaria delle masse proletarie, ben sapendo che il proletariato non ha una “patria”. Concludo citando una frase, sempre attuale, di Karl Marx: Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno.”

Lucio Garofalo

 

Nel quadro delle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia, che mi procurano un senso di fastidio e di insofferenza, ripropongo questo articolo che ho scritto tre anni fa pensando ad un parallelismo storico tra il genocidio dei Pellerossa e il massacro del Sud Italia.

 

Non c’è dubbio che nel campo delle interpretazioni storiografiche è opportuno evitare atteggiamenti troppo faziosi, dogmatici o apologetici per adottare un approccio possibilmente problematico verso le questioni e i processi storici. Francamente questo spirito libero non c’è nel clima di esaltazione retorica dei 150 anni dell’unità d’Italia.

 Con questo articolo so di andare controcorrente per tentare di recuperare la memoria di due esperienze storiche che sono state letteralmente cancellate dalla storiografia ufficiale. Mi riferisco al destino parallelo degli Indiani d’America e di coloro che sono definiti i “Pellerossa” del Sud Italia: i briganti e i contadini del Regno delle Due Sicilie.

Partiamo dai nativi americani. Dopo la scoperta del Nuovo Mondo da parte di Cristoforo Colombo nel 1492, cominciarono a giungere i primi coloni europei. All’epoca il continente nordamericano era popolato da circa un milione di Pellerossa raggruppati in 400 tribù. Quando i coloni bianchi penetrarono nelle sterminate praterie abitate dai Pellerossa, iniziarono una caccia spietata ai bisonti, il cui numero calò rapidamente causando un rischio di estinzione. In tal modo i cacciatori bianchi contribuirono allo sterminio dei nativi che non potevano vivere senza questi animali da cui ricavavano cibo, pellicce e altro ancora. Ma la strage degli Indiani fu opera soprattutto dell’esercito yankee che per espandersi all’interno del Nord America cacciò ingiustamente i nativi dalle loro terre compiendo veri e propri massacri senza risparmiare donne e bambini.

 I Pellerossa furono annientati attraverso un sanguinoso genocidio. Oggi i Pellerossa non costituiscono più una nazione essendo stati espropriati non solo della terra che abitavano, ma anche della memoria e dell’identità culturale. Infatti, una parte di essi si è pienamente integrata nella società bianca, mentre una parte minoritaria vive reclusa in alcune centinaia di riserve sparse nel territorio statunitense e in quello canadese.

Un destino simile, benché in momenti e con dinamiche differenti, associa i Pellerossa e i Meridionali d’Italia. Questi furono chiamati “Briganti”, furono trucidati, torturati, incarcerati, umiliati. Si contarono 266mila morti e quasi 500mila condannati. Uomini, donne, bambini, anziani subirono la stessa sorte. Processi manovrati o assenti, esecuzioni sommarie, confische dei beni. Ma noi Meridionali eravamo cittadini di uno Stato assai ricco. Il piccolo regno dei Savoia era fortemente indebitato con Francia e Inghilterra, per cui doveva rimpinguare le proprie finanze.

 Il governo sabaudo, guidato dallo scaltro e cinico Camillo Benso conte di Cavour, progettò la più grande rapina della storia moderna: cominciò a denigrare il popolo Meridionale per poi asservirlo invadendone il territorio: il Regno delle Due Sicilie, uno Stato civile e pacifico. Nessuno giunse in nostro soccorso. Solo alcuni fedeli mercenari Svizzeri rimasero a combattere sugli spalti di Gaeta fino alla capitolazione. I vincitori furono spietati. Imposero tasse elevatissime, rastrellarono gli uomini per il servizio di leva obbligatoria (che era già facoltativo nel Regno delle Due Sicilie), si comportarono vigliaccamente verso la popolazione e verso il regolare ma disciolto esercito borbonico, per cui molti insorsero.

Ebbe così inizio la rivolta dei Meridionali. Le leggi repressive furono simili a quelle emanate contro i Pellerossa. Le bande di briganti che lottavano per la loro terra avevano un pizzico di dignità e ideali, combattevano un nemico invasore grazie anche al sostegno delle masse contadine, tradite e ingannate dalle false promesse concesse da Garibaldi.

 Contrariamente ad altre interpretazioni storiche non intendo equiparare il Brigantaggio meridionale alla Resistenza antifascista del 1943-45. Anzitutto per la semplice ragione che nel primo caso si è trattato di una vile aggressione militare, di una sanguinosa guerra di conquista coloniale che ha avuto una durata molto più lunga della guerra di liberazione condotta dai partigiani: un intero decennio che va dal 1860 al 1870.

La repressione contro il Brigantaggio fu una vera e propria guerra civile che ha provocato eccidi spaventosi in cui furono massacrati e trucidati centinaia di migliaia di contadini meridionali, persino donne, anziani e bambini, insomma un vero genocidio perpetrato a scapito delle popolazioni del Sud Italia. Una guerra conclusa tragicamente e che ha prodotto drammatiche conseguenza, a cominciare dal fenomeno dell’emigrazione di massa dei meridionali, in pratica un esodo biblico paragonabile alla diaspora del popolo ebraico. Infatti, i meridionali sono sparsi nel mondo ad ogni latitudine, hanno messo radici ovunque facendo la fortuna di intere nazioni come l’Argentina, il Venezuela, l’Uruguay, gli Stati Uniti d’America, la Svizzera, il Belgio, la Germania, l’Australia, ecc.

 Ripeto. Se si vuole comparare la triste vicenda del Brigantaggio e la brutale repressione subita dal popolo meridionale con altre esperienze storiche, credo che l’accostamento più giusto sia appunto quello con i Pellerossa e con le guerre indiane combattute nello stesso periodo, ossia verso la fine del XIX secolo. Guerre che hanno provocato una strage altrettanto raccapricciante, quella dei nativi americani. Un genocidio completamente ignorato e dimenticato, così come quello a danno del popolo del nostro Meridione.

 In qualche modo condivido il giudizio rispetto al carattere retrivo e antiprogressista delle ragioni politiche che ispirarono le lotte dei briganti meridionali. In politica ciò che è vecchio è quasi sempre reazionario, tuttavia inviterei ad approfondire meglio i motivi sociali e le spinte ideali che animarono la resistenza contro i Piemontesi invasori.

 Non voglio elencare i numerosi primati detenuti dal Regno delle Due Sicilie in vari settori dell’economia, dell’assistenza sanitaria, dell’istruzione, nel campo sociale e così via, né intendo esternare sentimenti di nostalgia rispetto ad una società arcaica, dispotica e aristocratico-feudale, cioè rispetto ad un passato che fu di barbarie e oscurantismo, ingiustizia e miseria, sfruttamento e asservimento delle plebi rurali. Ma un dato è innegabile: la monarchia sabauda era molto più arretrata, rozza ed ignorante, molto meno moderna e illuminata di quella borbonica. Il Regno delle Due Sicilie era uno Stato più ricco e avanzato del Regno sabaudo, tant’è vero che costituiva un boccone invitante per le principali potenze europee del tempo, Inghilterra e Francia in testa. Questo è un argomento talmente vasto e complesso da esigere un approfondimento adeguato.

Infine, una breve chiosa a riguardo delle presunte spinte progressiste che sarebbero incarnate nei processi di unificazione degli Stati nazionali nel XIX secolo e dello Stato europeo oggi. Non mi pare che tali processi “unitari” abbiano garantito un autentico progresso sociale, morale e civile, mentre hanno favorito uno sviluppo prettamente economico. Non a caso l’unificazione dei mercati e dei capitali, prima a livello nazionale ed ora a livello europeo, o globale, non coincide con l’unificazione e l’integrazione dei popoli e delle culture, locali, regionali o nazionali. Ovviamente le forze autenticamente democratiche, progressiste e rivoluzionarie devono puntare al secondo traguardo.

Lucio Garofalo

L’orribile cataclisma che si è abbattuto sul popolo giapponese deve indurci ad una profonda autocritica politica, filosofica ed esistenziale della nostra civiltà per constatare anzitutto la finitezza della condizione umana, riflettere sul rapporto tra la vulnerabilità dell’essere umano e la potenza smisurata della natura e prendere atto che la nostra tecnologia, per quanto avanzata possa essere, evidenzia una serie di limiti e di carenze oggettive che soccombono di fronte alla furia spaventosa degli elementi naturali.

Ma proviamo a ricostruire brevemente i fatti accaduti per ricavarne, se possibile, alcuni preziosi insegnamenti che potrebbero servire all’intera umanità, a patto che questa sappia e voglia comprendere il senso e la lezione trasmessa dai recenti avvenimenti.

Il popolo giapponese è abituato da secoli a convivere con il rischio perenne di terremoti spaventosi ed ha imparato a fronteggiare come nessun altro paese al mondo le dolorose conseguenze causate dalle forze naturali contro cui l’umanità è da sempre costretta a confrontarsi. Non a caso il Giappone è all’avanguardia nel settore delle tecnologie antisismiche e costituisce un modello da seguire per tutti i popoli che abitano la Terra.

 

Nei giorni scorsi il Giappone è stato colpito da una serie impressionante di eventi sismici, tra cui la scossa più violenta è durata 400 secondi ed ha sprigionato un’energia assai elevata, con una magnitudo pari a 8.9 della scala Richter. In parole semplici, l’intensità sismica è stata 20 mila volte superiore al terremoto che distrusse L’Aquila e che raggiunse una potenza di 5.8 gradi della scala Richter. Dopo quella più forte in Giappone si sono registrate numerose scosse di assestamento che hanno superato i 6 gradi Richter.

 Se un terremoto simile si fosse verificato in qualsiasi altra parte del mondo, avrebbe provocato un eccidio inimmaginabile, mentre il Giappone ne è uscito praticamente illeso non avendo subito vittime, tranne un paio di decessi che pare siano dovuti ad infarto cardiaco. Purtroppo, al sisma ha fatto seguito uno tsunami di una forza inaudita che ha investito le coste nord-orientali dell’arcipelago giapponese, penetrando nell’entroterra in un raggio di oltre 5 chilometri con intere città allagate e villaggi rurali sommersi dalle acque e decine di migliaia di morti e dispersi. Dunque, lo tsunami ha arrecato il maggior numero di danni ed ha fatto strage tra le popolazioni stanziate lungo le zone costiere.

 Come se ciò non bastasse, si sono verificate violente esplosioni in alcune centrali atomiche che hanno generato il pericolo di una catastrofe ambientale e sanitaria, per cui l’allarme e la protesta che si vanno diffondendo in queste ore nel mondo contro lo sfruttamento dell’energia nucleare, sono assolutamente inevitabili e più che giustificati.

 Le considerazioni da fare sono molteplici, alcune “confortanti”, altre un po’ meno. Anzitutto occorre prendere atto che la vicenda giapponese fornisce la conferma che anche l’evento sismico più devastante, per quanto imprevedibile, può essere contenuto nei suoi effetti catastrofici mettendo in sicurezza le abitazioni che non sono a norma e costruendo gli edifici pubblici e privati con criteri rigorosamente antisismici come quelli applicati da anni in Giappone, che hanno dimostrato di reggere alle prove più terribili.

Questo è il dato positivo, che ci conforta nella misura in cui attesta che è possibile salvaguardare la vita umana e l’integrità degli agglomerati urbani rispetto alle conseguenze prodotte da un sisma di quelle dimensioni, mentre una riflessione negativa si deve avviare di fronte all’incontenibile furia di uno tsunami. La constatazione di un’evidenza così innegabile deve spingerci ad ammettere i limiti e le debolezze insite nell’attuale modello di sviluppo che esalta oltremodo una tecnologia che pretende di asservire e subordinare la natura e l’uomo alla logica cinica ed affaristica del capitale.

 Un discorso a parte merita la questione delle centrali atomiche e l’uso dissennato dell’energia nucleare. Infatti, mentre i terremoti e i maremoti sono disastri naturali assolutamente inevitabili, benché gli effetti siano arginabili e ridimensionabili almeno nel caso dei fenomeni tellurici, i rischi derivanti dal ricorso all’energia atomica sono evitabili in quanto si tratta di una scelta che dipende dalla volontà politica degli Stati.

Il dato più allarmante consegnatoci dai mezzi di informazione concerne l’esplosione alla centrale atomica di Fukushima n. 1, con il nocciolo del reattore che rischia la fusione, l’impianto di raffreddamento del reattore n. 2 ufficialmente fuori uso, alcune quantità di cesio radioattivo rilasciato nell’ambiente esterno, decine di persone già contaminate dalle radiazioni e non si sa cos’altro sia successo. Inoltre, una nuova esplosione si è verificata nell’impianto di Fukushima durante la notte scorsa, danneggiando il reattore 3 e destando forti timori e preoccupazioni. Lo stesso governo nipponico è stato costretto ad avvisare stampa e opinione pubblica rispetto al rischio di fusione nel reattore n. 3.

 Il presidente della Camera Gianfranco Fini, ospite del programma “L’Intervista” condotto da Maria Latella su Sky Tg24, a proposito delle ripercussioni “emotive” che potrebbero condizionare il rilancio del nucleare in Italia, ha dichiarato: “Il mio auspicio è che non si decida solo sull’onda dell’emozione”. Ricordo che anche in seguito al disastro di Chernobyl si disse che non bisognava decidere emotivamente e che si trattava di una centrale arretrata dal punto di vista tecnologico. Cosa che non vale nel caso degli impianti giapponesi, per cui è certo che la decisione più saggia sia quella di rinunciare all’impiego dell’energia atomica. Alla faccia della lobby di scienziati, politici e affaristi fautori del ripristino del nucleare in Italia in un momento in cui altrove si discute l’ipotesi di superare definitivamente lo sfruttamento delle fonti energetiche nucleari.

In conclusione, non è “sciacallaggio” l’atteggiamento di chi rileva i pericoli concreti legati allo sfruttamento del nucleare alla luce della drammatica esperienza giapponese, ma il cinismo e l’affarismo che alimentano la propaganda condotta negli ultimi anni per convincere l’opinione pubblica italiana ad accettare l’inganno sinistro delle centrali nucleari come soluzione, puramente illusoria, dei problemi energetici del nostro paese. 

Lucio Garofalo

 Nel film Paz! i personaggi sono tratti dai fumetti di Andrea Pazienza, geniale disegnatore e pittore italiano. Un personaggio, Pentotahl, è l’alter-ego dell’autore. Nel film, Pentothal è interpretato dall’attore Claudio Santamaria. Pentothal è un disegnatore di fumetti sprofondato in uno stato di torpore addirittura atarassico, è un giovane indolente e svogliato, ignavo ed estraniato dal mondo, sempre chiuso in casa con addosso un pigiama. Pentothal è uno studente iscritto al DAMS, Dipartimento delle Arti, Musica e Spettacolo, all’Università degli Studi di Bologna. In effetti, Pentothal rappresenta l’autoritratto di Pazienza, è chiaramente un personaggio autobiografico, come autobiografici sono quasi tutti i personaggi creati dall’estro di Andrea Pazienza.

 

Nel film Paz! c’è una scena emblematica in cui i compagni del movimento (il contesto del film è la Bologna del 1977) rimproverano Pentothal di essere “improduttivo” ed urlano: “o diventi produttivo o …”, “sei un artista e te ne freghi”, “ce lo caghi che sei un artista!”. In effetti Pazienza, pur essendo un po’ marginale rispetto al Movimento settantasettesco, ne interpretò le ansie, le inquietudini, le ribellioni, le contraddizioni.

Ma chi era Andrea Pazienza? E quale ruolo può svolgere l’artista nella società contemporanea? In che modo l’artista può concorrere al progresso del genere umano?

Andrea Pazienza, scomparso prematuramente nel 1988, è stato uno degli artisti più geniali e poliedrici del panorama fumettistico italiano, nonché un fecondo e notevole autore di illustrazioni di vario genere. Fondamentalmente egli era un pittore prestato al fumetto, per cui è stato un audace sperimentatore che ha rinnovato le tecniche del disegno, un campione impareggiabile dell’arte fumettistica, un autore straordinario che ha fatto scuola ma non ha avuto epigoni in quanto il suo talento era unico ed inimitabile.

Andrea era figlio d’arte in quanto suo padre era professore di educazione artistica e grande acquerellista, mentre sua madre era insegnante di applicazioni tecniche. Quando Andrea cominciò a dedicarsi all’arte del fumetto poté sfruttare un ricco bagaglio di conoscenze pittoriche e letterarie e una raffinata formazione culturale, applicando nel procedimento fumettistico le tecniche e gli stili derivanti dall’arte classica e d’avanguardia, soprattutto la grafica pubblicitaria e l’ironia iconoclasta del movimento dadaista, da cui rimase letteralmente folgorato, avviandolo ad una visione anarcoide del mondo, e dell’arte in particolare.

Agli inizi del 1977, proprio al DAMS, Umberto Eco, dopo aver esaminato i suoi disegni, lo segnalò a Oreste del Buono che era all’epoca direttore responsabile di Linus, la più importante e prestigiosa rivista italiana di fumetti, che tra i vari autori ha ospitato le vignette di Altan, Angese e Vauro. Ma Oreste del Buono rispose che le sue storie non erano adatte alla testata da lui diretta. Più tardi Andrea irruppe da solo nella redazione di Linus, presentandosi con una serie di tavole a colori che riscossero l’attenzione di Hugo Pratt e il consenso della redazione. Così, sulle pagine del supplemento Alter Alter, nato da una costola di Linus, Pazienza iniziò a pubblicare la sua prima storia a fumetti, Le Straordinarie avventure di Pentothal, in cui si riflette lo spirito del movimento studentesco, non assimilabile a ideologie prestabilite.

 Pazienza ha fondato e collaborato con varie riviste di controcultura, satira e fumetti underground che hanno deriso il conformismo e il perbenismo borghese: si pensi a testate di culto come Cannibale, Il Male, Frigidaire, quindi Corto Maltese, Comic Art e Orient Express nate nei primi anni ’80, nonché inserti satirici come Ottovolante supplemento di Paese Sera, Satyricon di Repubblica, Tango de l’Unità, ed ha partecipato a numerose pubblicazioni editoriali.

  Tra i suoi personaggi bisogna citare Pentothal, Zanardi, Pompeo ed altri. Una menzione a parte merita Pertini, dedicato alla figura del Presidente della Repubblica più amato dagli italiani per i suoi atteggiamenti informali che si discostavano dall’ufficialità e dai cerimoniali della politica istituzionale. Celebre divenne la copertina disegnata da Paz nel dicembre 1979 per Il Male. Il Presidente in persona chiamò Andrea per congratularsi con lui e chiedergli la copertina in omaggio.

 Occorre aggiungere che Pazienza non ha lavorato solo nel campo della nona arte, ossia il fumetto, ma ha svolto un’intensa ed eclettica attività grafica, creando importanti locandine per il cinema e il teatro (ad esempio l’immagine del film La Città delle Donne di Federico Fellini; inoltre, pare che Roberto Benigni volesse affidargli il manifesto del film Il piccolo diavolo, ma la prematura scomparsa dell’artista impedì la realizzazione del progetto), copertine di dischi di Amedeo Minghi, Claudio Lolli, David Riondino, Enzo Avitabile, Roberto Vecchioni, Franz Di Cioccio e la PFM, nonché scenografie, costumi, illustrazioni per cartoni animati, murales e persino per alcune campagne pubblicitarie.

Pare che Andrea Pazienza fosse pigro. Una peculiarità tipica degli artisti geniali è l’indole oziosa, che non significa apatica, né accidiosa. Infatti, molti confondono l’indolenza con l’ignavia e l’indifferenza, che invece sono caratteristiche detestabili. Un altro artista assai famoso e geniale, di indole notoriamente pigra, era Massimo Troisi.

 Ma la pigrizia sembra essere una caratteristica quasi antropologica degli italiani. Si tratta indubbiamente di un falso stereotipo e di un facile luogo comune, tuttavia pare che gli italiani siano un popolo di assidui e instancabili grafomani, ma che leggono molto poco. Come si spiega ciò se non con la pigrizia? E’ noto, ed è confermato dalle statistiche, che in Italia esistono più scrittori che lettori. Ma al di là dei limiti tecnici e dei talenti personali, non credo sia giusto castrare l’ansia comunicativa che si esprime attraverso l’uso della parola scritta piuttosto che con altri codici extraverbali. Del resto questo desiderio creativo si manifesta anche in altri settori come il disegno, la musica, il teatro, la fotografia. Quanti di noi si sono cimentati in uno di questi campi almeno una volta? Si pensi alle recite teatrali allestite a scuola, alle attività grafiche e pittoriche sperimentate sin dall’infanzia, alle invenzioni artistiche realizzate per puro diletto.

 Il vero problema è un altro, vale a dire il rapporto tra la libertà creativa ed espressiva e l’industria culturale, cioè l’economia di mercato. Ogni artista ha dovuto confrontarsi con i propri limiti, ma soprattutto con le contraddizioni insite nel sistema capitalista. In un’economia di mercato i soldi si accumulano vendendo merci.

 Ebbene, se un talento viene mercificato, cioè ridotto a merce, e come tale messo in vendita, allora è probabile che ci siano discrete possibilità di guadagnare qualcosa, ma in realtà solo le briciole sono destinate all’artista, o allo scrittore, a meno che non si tratti di Umberto Eco e pochi altri personaggi celebri della cultura. Invece, gli utili maggiori vanno nelle tasche dei manager, degli editori, dei padroni dell’industria culturale. Nella società mercantile e consumista di massa, l’arte, il cinema, la letteratura, la musica, sono merci da vendere e comprare, sono prodotti dell’industria culturale e dello spettacolo, finiscono esposte in vetrine televisive come il Maurizio Costanzo Show o altri salotti mediatici.

 In un sistema mercantile la qualità estetica è sacrificata in nome della quantità, mentre si valorizzano i criteri commerciali, come un manufatto che ha la proprietà di vendersi in quanto ottiene il gradimento del pubblico, perciò è prodotto su scala industriale. Il mercato tende a svilire le opere di gran pregio, privilegiando e assecondando le esigenze del profitto che non hanno nulla a che spartire con l’ingegno, l’arte e la maestria.

Temo che se nascesse un nuovo Giotto, un nuovo Michelangelo, un nuovo Leonardo da Vinci oppure, citando personaggi più recenti, un nuovo Demetrio Stratos, un nuovo Rino Gaetano, un nuovo Andrea Pazienza, un nuovo Hugo Pratt, autore di Corto maltese, o un nuovo Bonvi, creatore di Sturmtruppen, insomma un talento straordinario dell’arte, del fumetto, della letteratura, della musica, rischierebbe di finire povero e misconosciuto, con scarse probabilità di essere scoperto e nel caso si riuscisse a lanciarlo sul mercato e a pubblicarne le opere, queste non otterrebbero il meritato premio di pubblico, mentre l’industria culturale continuerebbe a promuovere le solite insulsaggini commerciali.

Nel nostro tempo non c’è alcun margine di azione per il mecenatismo che tenti di scoprire e favorire l’arte e il talento. Nella società mercantile e consumista di massa non si potrà mai sviluppare un nuovo Rinascimento artistico e culturale pari a quello che rese magnifico il periodo tra la prima metà del 1400 e la prima metà del 1500, in quanto non avrebbe l’appoggio degli sponsor, degli editori, dei manager e dei padroni dell’industria della cultura e dello spettacolo, troppo presi dai loro interessi affaristici.

Lucio Garofalo